Giappone. Otto anni dopo a Fukushima la gente non torna
Resta il timore dei valori ancora alti di radioattività. Taglio dei sussidi per convincere i residenti al rientro.
Naoko Takahara, 75 anni, non è cambiata. L’orto è come sempre ben curato: c’è anche la rucola, da quando le portammo i semi, 8 anni fa, lei e la sua famiglia ne vanno matti. Loro continuano a mangiarli, i frutti dell’orto: «Siamo vecchi, se muoriamo di cancro non sarà certo per colpa delle radiazioni...». L’11 marzo 2011 sembra lontano.
Assieme al marito Shun, Naoko vive a Namie, uno dei piccoli villaggi ai confini della cosiddetta “zona proibita”, ad una ventina di chilometri dalla centrale. Furono tra i pochi cittadini che dopo la tragedia nucleare rifiutarono l’evacuazione. La madre di Naoko aveva 94 anni, e non poteva muoversi da letto.
«Se ci spostiamo, morirà di crepacuore: è vecchia, voglio che muoia qui, in casa sua», ci raccontava. Il suo caso fece notizia, all’epoca. Alla fine la spuntò: le autorità chiusero un occhio e la mamma, senza accorgersi di nulla, è morta tranquilla nel suo letto, due anni fa. Ora il divieto di residenza, a Namie come nel 92% della vecchia zona proibita, è stato tolto. Ma Naoko e suo marito sono ancora soli. «Nessuno vuole tornarci qui. E fanno bene. Questa è una terra morta. Uccisa dalla Tepco e dal governo che ne ha coperto e continua a coprirne i misfatti». Nessuna speranza?
«Si, forse una – risponde Naoko, che è cristiana – l’unico modo per riportare l’attenzione del mondo sulla nostra tragedia è che quando il Papa visiterà il nostro Paese, preveda una tappa a Fukushima. Ma non glielo consentiranno mai». Basta percorrere la statale 65, oggi quasi interamente riaperta al transito, ma percorsa solo dai camion che trasportano terra contaminata – in sette anni 70mila “volontari” ne hanno accumulato 3 milioni di tonnellate al costo mostruoso di 25 miliardi di euro, e senza sapere ancora cosa farne, visto che nessuna provincia ha accettato il piano governativo di «redistribuzione» – per cogliere le drammatiche contraddizioni di una regione che il governo ha dichiarato «sicura», sottoponendo gli ex evacuati ad un micidiale mix di promesse, assicurazioni e minacce, ma che è ancora di fatto deserta. E che tale resterà.
Perché non basta, come ha fatto il governo all’indomani dell’incidente, aumentare arbitrariamente i parametri di radioattività «sostenibile con la vita umana», portandoli da un microsievert l’anno – che è lo standard internazionale – a venti. È il rapporto di fiducia con le autorità (e con i media nazionali), da sempre efficace collante sociale, che si si è rotto. La gente non si fida più. E così queste terre un tempo belle e fertili, dove oggi abitano oramai pochi anziani che non hanno nulla da perdere e che alla vita in una casetta di plastica e alluminio, o ospiti «sopportati» di qualche familiare preferiscono gli odori e i rumori della loro vecchia casa, rischiano di morire per sempre. Tant’è che c’è già chi sta pensando di investire, creando enormi distese di pannelli solari.
«I giapponesi sono molto legati alla terra d’origine, se non tornano non è certo per dispetto o ripicca. È perché davvero non ci sono i presupposti per riprendere una vita serena e salutare. Il governo, sui dati della radiottività, mente». Tomoko Sasaki è una donna di 45 anni di Iwaki, un altro centro vicino alla centrale. Subito dopo l’incidente, quando i dirigenti della centrale ed il governo ancora negavano che ci fosse una vera e propria emergenza (il triplo meltdown è stato ammesso solo il 16 giugno, tre mesi dopo l’incidente) ha fondato il Centro per il Controllo Civile delle Radiazioni, che ancora oggi è molto attivo.
Grazie ad una rete di medici volontari, offre consulenze e screening gratuiti a chiunque voglia controllare la sua salute. «La autorità ci hanno mentito continuamente: prima negando i meltdown, poi sottovalutando l’emergenza, poi illudendoci che un rientro sarebbe stato possibile e a breve. E ora dicendoci che possiamo rientrare: rischiate di più di ammalarvi di cancro se fumate o siete obesi che a vivere qui, ci dicono.... Ma io non fumo e non sono obesa, e non voglio morire di cancro».
Per convincere gli abitanti ad abbandonare la zona proibita all’epoca, il governo e la Tepco (la società che gestisce la centrale e che ora è partecipata dallo stato al 51%) hanno offerto lauti e secondo molti esagerati sussidi: fino ad oltre 1.500 euro al mese, soldi che molti anziani hanno comunque rifiutato e con i quali molti giovani hanno perso qualsiasi stimolo a cercare lavoro. Ora, per convincerli a tornare, il governo ha minacciato – e per certe categorie la misura è già operativa – di sospendere i sussidi. Entro la fine del 2019, per molti, giusto in tempo per le Olimpiadi.
Pio D'Emilia - Avvenire
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