Da 7 anni s'immerge cercando la moglie scomparsa nello tsunami
Ha trovato oggetti appartenuti alle vittime, ma niente di Yuko
11 marzo 2011, 14.46 ora locale: un terribile terremoto nel fondo del Pacifico al largo di Tohoku, Nordest del Giappone, scatena uno tsunami. Onde che corrono a 700 chilometri orari, spaventevoli muri alti 20 metri. Nel mondo si parla della centrale nucleare di Fukushima, coinvolta nel disastro. Ma interi paesi costieri vengono distrutti. A Onagawa, una cittadina di pescatori, c’è un’impiegata di banca che si chiama Yuko. Al momento dell’allarme sale con i colleghi sul tetto dell’edificio. Ma le onde, è spaventoso, sono molto più alte. La donna le vede avvicinarsi, lambire l’edificio in un boato di tuono, e capisce che non si salverà. Dal cellulare scrive al marito Yasuo Takamatsu, allora 54 enne, queste parole: “Voglio tornare a casa”. Come una bambina spaventata, come tornata in quell’istante bambina.
Quindicimila, i rapiti dall’oceano sconvolto. Dieci anni dopo, in 2.500 mancano ancora all’appello. Fra di loro c’è Yuko. Scomparsa, inghiottita da quelle acque in cui giocava, da piccola.
Ma Yasuo non si è dato per vinto. Pretendeva che le onde almeno gli restituissero la sua donna - “l’amore della mia vita”, la chiama. Allora ha preso il brevetto di sub, e sette anni fa ha iniziato a immergersi, ogni volta che poteva. Tuta, boccaglio, bombole e giù, verso il fondale, nella luce azzurrognola del sole che filtra nell’acqua, e che scendendo si fa sempre più fioca. Sotto, rottami, e macerie su cui la vegetazione marina è già ricresciuta, e lenti banchi di pesci. Qualche pesce sembra guardare con meraviglia quello strano intruso nero, lungo, mai visto.
Quasi 500 immersioni in sette anni. Yasuo ha riportato a terra innumerevoli oggetti appartenuti alle vittime, ma mai niente di Yuko. Ci si può immaginare, quando la sua barca attracca in porto, una piccola folla di parenti dei morti, ansiosi di vedere ciò che l’ostinato marito ha portato a terra. Tanti hanno riavuto indietro qualcosa dei loro cari. Ma di lei, Yuko, mai niente.
“Continuerò finché ne avrò le forze”, dice l’uomo, che di anni ormai ne ha 64: ”Lei mi ha detto che voleva tornare a casa, e io la riporterò a casa”. Ostinazione irragionevole, diranno in molti. Chissà, in dieci anni, che cosa ha fatto l’Oceano immenso, del piccolo corpo di una donna. Ostinazione che fa pensare a quei soldati dell’esercito giapponese che, finita la guerra, per decenni restarono nelle selve delle isole, decisi a combattere ancora, per sempre, una guerra perduta. Takamatsu non è un soldato, ma ha in sé un imperativo interiore che non gli permette di arrendersi. Come se il tempo che passa non avesse alcuna importanza; come se a una promessa fatta non si potesse, mai, venire meno. O forse è proprio quel non smettere di cercare ciò che lo mantiene in vita? Finché cerca, ancora può sperare.
Un uomo così difficilmente si arrende alla vecchiaia. Magari ancora fra degli anni, solo, cocciuto, continuerà con la sua barca a prendere il mare. I nuovi ragazzini, che al tempo dello tsunami non erano nati, ne sorrideranno come di un vecchio matto. Ma lui, bombole in spalla, boccaglio e giù, nel mondo sommerso, a cercare Yuko. Non la troverà: ma un giorno forse quel cielo alla rovescia, quell’universo blu e silenzioso gli sarà familiare come fosse ormai la sua vera casa. Allora Yasuo potrebbe dire alla moglie: la nostra casa è questa, ora, restiamo qui. Non è importante dove, importante è che ora siamo insieme per sempre. E i vecchi amici al porto, al tramonto, invano aspetteranno di vederlo tornare. (Avvenire)
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