Bergoglio in Corea per costruire ponti
Un ponte con la Corea del Nord, un ponte con il Giappone. La presenza di Papa Francesco in Corea del sud, nel viaggio del prossimo 14-18 agosto, potrebbe contribuire al disgelo tra le nazioni dell’area, gettando olio sulle ferite della storia. Le fratture di Seul con Pyongyang e con Tokyo, infatti, non sono ancora risanate. E Bergoglio conferma la sua “diplomazia della preghiera”, una via già battuta nella veglia per la pace in Siria e nell’incontro tra Perez e Abu Mazen in Vaticano.
Nei giorni scorsi la Chiesa coreana ha resto noto che alcuni cattolici della Corea del Nord, nazione con cui Seul è tecnicamente ancora in guerra dopo l’armistizio postbellico del 1953, sono stati invitati alla messa che Papa Francesco celebrerà nella capitale sudcoreana a conclusione del pellegrinaggio. L’invito è significativo perché, se accolto, costituirebbe l’implicito riconoscimento dell’esistenza della fede cristiana oltre la cortina di bambù, in una nazione che è maglia nera nel mondo per il rispetto della libertà religiosa e dove si stima che siano almeno seimila i cristiani rinchiusi nei gulag, perseguitati solo a causa della fede.
Nel 2014 la Santa Sede ha dichiarato “deceduto” l’ultimo vescovo di Pyongyang, Francesco Borgia Hong Yong-ho, mentre la Chiesa coreana ha chiesto alla Congregazione per le cause dei santi di aprirne il processo di beatificazione. Il vescovo e ottanta compagni furono martiri della persecuzione del regime di Kim Il-sung subito dopo la divisione della penisola coreana, nel 1948.
Se si pensa che, agli inizi del ‘900, Pyongyang, era chiamata “la Gerusalemme d’Oriente”, per la fioritura del cristianesimo e oltre tremila chiese, il deserto di oggi risulta impressionante: un’unica chiesa rimasta e la fede ufficialmente estinta, anche se, secondo molti, esisterebbero piccole comunità “sotterranee”. La Chiesa del sud opera alacremente per la pacificazione, con la speranza di poter un giorno riavviare le attività di culto e pastorali al Nord.
Altra presenza confermata alla messa di Francesco a Seul è quella di un gruppo delle cosiddette “donne di conforto”, le sudcoreane costrette alla schiavitù sessuale dall’esercito giapponese nella Seconda guerra mondiale. Gli organizzatori le hanno invitate come segno di particolare attenzione al genere femminile ma anche alla vita civile della nazione. In Corea del Sud, infatti, il 15 agosto – mentre Francesco è nel paese – si celebra il giorno dell'indipendenza e la liberazione delle donne coreane schiave dei giapponesi. La ferita è tuttora aperta e condiziona pesantemente i rapporti diplomatici nippo-coreani. Secondo studi ufficiali, le “donne di conforto” furono oltre 200mila (oggi le superstiti sono 54) ma fino al 1973 il fenomeno fu apertamente negato da Tokyo. In quell’anno uno studio di Kakou Senda costituì la prima articolata denuncia di un sistema organizzato di mercificazione delle donne del popolo militarmente occupato. Ma solo nel 1993 fu emanata la “Dichiarazione di Kono” (dal nome di Yohei Kono, allora capo gabinetto del governo giapponese) che riconobbe l'esistenza di abusi e ammise gli errori, senza tuttavia formulare scuse ufficiali o garantire risarcimenti.
L’attrito diplomatico è tuttora fortissimo. Pochi giorni fa il ministero degli Esteri di Seul ha convocato l’ambasciatore giapponese perché il governo di Tokyo ha prospettato un clamoroso passo indietro, rispetto al documento del 1993: il che costruirebbe un affronto ancora maggiore, perché significherebbe negare una verità storica, riconosciuta a livello internazionale. Seul ha annunciato la pubblicazione, entro luglio 2015, di un “Libro bianco” destinato a “chiarire in modo inequivocabile la questione della schiavitù sessuale delle donne coreane”.
Nel corso degli ultimi decenni, le relazioni economiche tra Corea del Sud e Giappone hanno continuato a crescere, ma la ferita della colonizzazione giapponese non si è cicatrizzata. Tale cornice ha raffreddato per anni anche i rapporti tra i cattolici dei due paesi. Finchè, proprio all’indomani della dichiarazione di Kono, i vescovi giapponesi e coreani hanno preso l’iniziativa, avviando regolari incontri bilaterali per “guarire al ferite del passato”. Le riunioni, arrivate al ventennale, sono caratterizzate dallo slogan “riconciliazione nella verità”. I vescovi intendono così “contribuire ad aumentare l’amicizia fra i due paesi”. Hanno lanciato iniziative pastorali congiunte, soprattutto programmi di solidarietà e cooperazione.
Ma il lavoro più duro è quello sulla lettura condivisa della storia. I coreani, infatti, contestano i libri di storia utilizzati nelle scuole giapponesi, che non riconoscono le atrocità dell'esercito del Sol Levante, tantomeno la prassi delle coreane deportate come “donne di conforto”. Su questo versante, l’Istituto pastorale di Corea, affiliato alla Conferenza episcopale, ha pubblicato un testo condiviso dall’episcopato nipponico. Il libro, pensato per i giovani, affronta delicate questioni di storia e cultura dei due paesi e tenta di riconsiderare le vicende storiche del Secondo conflitto mondiale secondo criteri di verità e giustizia. La riconciliazione, spiegano i vescovi, passa proprio attraverso i giovani: proseguono anche gli incontri di conoscenza e scambio tra giovani cattolici nipponici e coreani (che saranno fianco a fianco nell’Asian Youth Day con Papa Francesco), nati sulla scia delle Giornate mondiali della gioventù.
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