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9 novembre 1989, la caduta del muro di Berlino

Antonio Tarallo Ansa
Pubblicato il 09-11-2022

Abbattere i muri

Fa un certo effetto pensare, oggi, alla caduta del muro di Berlino. Quel 9 novembre del 1989 segnava la fine dell’ultimo baluardo della guerra fredda; 9 novembre 1989, una delle date più importanti della storia del Ventesimo secolo: un muro cade, e con esso, va in frantumi uno dei più importanti simboli della divisione del mondo tra est e ovest. Quel giorno, per la prima volta dal 1961, anno della sua costruzione, decine di migliaia di abitanti della parte orientale della città di Berlino si riversavano in quella occidentale. L'iconografia scolpita nei ricordi, nell’immaginario collettivo, è quella di migliaia di giovani che - con picconi alla mano - si scagliavano contro questo muro di divisione; erano giovani pieni di speranza; erano giovani che volevano instaurare una nuova visione del mondo: non più muri, non più guerre e divisioni.

Per ben ventotto anni questa barriera di cemento armato lunga 155 KM aveva diviso fisicamente la capitale tedesca in due parti: la Berlino Est, controllata dall'Unione Sovietica e la Berlino Ovest, zona di occupazione americana, britannica e francese. La sua costruzione era iniziata nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961 per bloccare il flusso di cittadini che dall'est emigravano verso ovest, cercando condizioni di vita migliori. Inizialmente, il muro venne costituito da pali e filo spinato; successivamente fu ampliato e reso sempre più impenetrabile da due lunghe file di blocchi prefabbricati di cemento armato alti tre metri controllati da torrette e posti di blocco.

Nel mezzo, una lingua di terra nota come "la striscia della morte", presidiata da cecchini. Si stima che oltre duecento persone siano state uccise dalle guardie mentre provavano a fuggire verso Berlino Ovest. In cinquemila circa riuscirono a varcare il confine, utilizzando diversi stratagemmi, tra cui bagagliai con il doppio fondo e tunnel scavati al di sotto del muro. La muraglia fu considerata il simbolo concreto della cosiddetta “cortina di ferro”, ovvero l'immaginaria linea di confine tra le zone europee occidentali della NATO e quelle filosovietiche del Patto di Varsavia dell'Europa orientale, esistita durante la guerra fredda.

Anno 2022: sono passati 33 anni, e rileggendo la storia del muro, oggi, non possono che venire in mente le immagini del nostro mondo contemporaneo. Possibile questo ritorno indietro dell’umanità? Possibile ancora divisione fra due fronti? Possibile ancora muri fra gli uomini? A queste domande la ragione umana dovrebbe rispondere con un forte, rumoroso, “no”; eppure, non è così.

I muri fanno ancora parte della nostra vita, nella storia del nostro oggi. Basterebbe solo pensare, fra i tanti, a quello eretto fra il confine tra il Mexico e gli USA: una barriera di separazione, detta anche “muro messicano” o “muro di Tijuana”, che percorre la frontiera al confine tra USA e Messico; chiamato anche “muro della vergogna”; costruito nel 1990, fatto di lamiera metallica sagomata alta dai due ai quattro metri, si snoda per chilometri e chilometri lungo la frontiera tra Tijuana e San Diego; obiettivo di questa cortina è quello di impedire agli immigrati del Mexico di oltrepassare il confine statunitense. Tra il 1994 e il 2007 sono stati circa 5.000 i morti che hanno cercato di varcare quel confine: questo è il dato registrato in un documento della Commissione nazionale per i diritti umani del Messico, siglato anche dalla American Civil Liberties Union.

Il muro, da che mondo è mondo, vuol dire esclusione di una parte: il muro, per sua “grammatica architettonica”, ha significato di divisione, scissione. E, i muri fanno ancora parte della nostra vita, nella storia del nostro oggi. Si ha timore di chi affronta le acque dello sconfinato mare per trovare un futuro migliore. Si ha paura, e non vi è ancora una politica europea adeguata che possa realmente risolvere situazioni al limite della disumanità.

Il discorso non è solo poi così lontano dalla vita di ogni giorno. Basterebbe entrare in molti posti pubblici per rendersene conto: barriere che non permettono a donne e uomini diversamente abili di condurre una vita inclusiva nella società; scale mobili, ascensori che - il più delle volte - escludono persone con handicap. Non è questo, forse, un altro muro?
I muri fanno ancora parte della nostra vita, nella storia del nostro oggi. Sono muri sociali che non permettono una vera e propria integrazione delle persone provenienti da altri paesi. Sono i muri non in cemento, ma nascosti, velati o invisibili; eppure, anche questi, sono muri che dovrebbero essere abbattuti.

Cellula primordiale della società, la famiglia: anche in questa piccola cellula, vi sono divisioni. Si tratta, in questo caso, di muri che non permettono unione fra fratelli e sorelle, fra genitori e figli; sono i muri più nascosti.

Ma le analisi senza soluzione alcuna potrebbero sembrare alquanto sterili. La soluzione del tutto è semplice; ed è contenuta nel messaggio di un uomo che aveva anch’egli vissuto i muri dell’esclusione: san Francesco d’Assisi. Il primo, lo ha vissuto nella stessa sua famiglia, quando decide di seguire Cristo: papà Bernardone innalzerà la muraglia della non comprensione; e poi, il muro che vive in Assisi (e non solo) in quell’esser preso per folle perché diverso dagli altri solamente per aver deciso di seguire radicalmente l’amore per Cristo e i fratelli; e poi, arriverà la volta del muro più famoso, quello reso celebre dalle pagine di storia: quello che poteva esserci tra lui e il sultano Al-Malik al-Kamil.

Come risponde san Francesco a questi muri? Ecco, la sua rivoluzionaria risposta: “Dove è odio, fa ch'io porti amore, dove è offesa, ch'io porti il perdono, dov'è discordia ch'io porti l'Unione”. Per portare unione non serve poi così tanto; abbattere i muri non è impresa impossibile: se la preghiera citata porta il nome di “preghiera semplice”, in fondo, un motivo dovrà pur esserci.

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