editoriale

Coronavirus: Siamo fragili, non vergogniamoci

CORRIERE DELLA SERA Ansa/YONHAP
Pubblicato il 04-03-2020

Prendiamo a spallate di buonsenso e dignità il turbamento del contagio

C’è la signora romana che nella chat delle mamme ripete: «Mi dispiace» perché lei e la figlia sono risultate positive al Covid-19. E aggiunge, quasi per farsi un po’ perdonare: «Mio marito e il bimbo piccolo no». Poi la ragazza di Bergamo che ha postato un video in un gruppo privato e se l’è trovato dappertutto, con dati, foto e voce riconoscibili: era il suo annuncio, a pochi, che il tampone le aveva appena restituito l’esito che nessuno vorrebbe. «Adesso, anche quando guarirò, non si avvicineranno più, perché la gente... la gente non capisce». E ci sono gli abitanti di Codogno, come degli altri comuni lombardi finiti in zona rossa, che gli psicologi di supporto alle aree in quarantena raccontano abbattuti – ancora di più, se possibile – dal senso di colpa. In mezzo strisciano le notizie di turisti del Nord presi a ciabattate verbali su un’isola del Sud che si sogna incontaminata e di cinesi, magari con nomi più italiani di quelli dei nostri figli, che cercano l’invisibilità dietro mascherine usate come scudo contro il vento intermittente del razzismo di strada.

La vergogna sociale causata dalla malattia: la vergogna per il proprio respiro che si è fatto acchiappare chissà come, quando, dove dal virus e la vergogna per il contagio che dalla nostra «caduta» può generarsi o essersi già generato. Vergogna e dunque paura degli altri, della «gente che non capisce», del vicino che di colpo si tramuta in vigilante ostile sulla soglia delle nostre case rinserrate. Questi che stiamo vivendo sono giorni, settimane, mesi di spavento e di precarietà, di incertezza estesa – per ora – all’infinito che neppure il meglio della virologia mondiale può addomesticare. Navighiamo tutti e tutte a vista, nelle vie diventate di ovatta, sui mezzi pubblici dove ci reggiamo appena agli appositi sostegni, tra gli scaffali ri-riforniti dei supermarket. Cerchiamo di andare avanti e di tenere il pericolo a distanza di droplet, un metro almeno, meglio due, da quelle «goccioline» sospese come granate nell’aria che pure in poco tempo si è fatta tersa, ripulita dal traffico e dai rumori.

Ma c’è una cosa che possiamo fare e subito: abbattere i muri che la vergogna alza tra noi come carta vetrata. In questa stagione già sconvolgente, possiamo prendere a spallate di buonsenso e dignità il turbamento segreto che il contagio ancora – ancora ?! – si trascina dietro come una coda riprovevole.

La vergogna «come ripetizione e accumulo», che la scrittrice francese Annie Ernaux attribuiva all’indicibilità della sua infanzia di miseria nel paesino di Y, si carica dell’angoscia che ci assale se temiamo di diventare causa non solo – e non tanto – del nostro male quanto del possibile male degli altri. Dei compagni di lavoro, di classe, di palazzo, di frazione, per chi non vive nel perimetro allargato e liberatorio delle città e metropoli. Quasi tutto è cambiato, nella costellazione di un’epidemia che ogni sera minaccia di trasformarsi in pandemia, tuttavia galleggia pervicace quella vecchia domanda che racchiude un’eco conformista: che cosa penseranno di noi se saremo stati i primi a portare il virus nel nostro cortile?

Proviamo a rispondere: non penseremo, anzi non pensiamo niente, niente di niente, niente di male. Esprimiamo soltanto comprensione, condivisione, empatia gli uni per gli altri perché all’origine c’è il caso e non una causa o un dolo. Rompiamo attivamente la catena per cui nella vergogna cresce la sensazione che non ci sia scampo: «che alla vergogna possa seguire soltanto una vergogna ancora maggiore». Il virus ha colpito un autore famoso e la sua compagna, un assessore di una regione importante, un poliziotto e forse una manciata di vigili della capitale, due preti, due magistrati, il bambino della classe accanto con la sua mamma, il signore anziano del piano di sopra e chissà quanti ancora finché i numeri finalmente non si restringeranno come un fiume che torna secco sotto terra. Siamo una comunità che – nella sofferenza – comincia a parlarsi, spiegano psicologi e sociologi. Se il medico arriva puntuale e riceve come da appuntamento, tutti stanno zitti. Ma man mano che il ritardo prende forma, gli sguardi in sala d’aspetto si incrociano e la conversazione si allarga nel drappello in attesa nervosa. Trasformiamo quella conversazione tra esseri umani che affrontano insieme una prova in una rete fitta di parole gentili, una rete elastica capace di contenere chi cade e potrà poi rimbalzare, in pace, senza sentirsi trascinato giù nella spirale del panico collettivo. La qualità di una famiglia, di una comunità, di un Paese intero si misura (anche) con il termometro invisibile di una spudorata compassione.

Barbara Stefanelli, Corriere della Sera

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