editoriale

Coronavirus, nessuno sfugga: non si vive di soli diritti

Antonio Polito - Corriere della Sera Ansa/Matteo Corner
Pubblicato il 09-03-2020

Non sfidare il virus, meglio temerlo

Smettiamola di biasimarci l’un l’altro. Stiamo commettendo tutti degli errori, alcuni madornali. Altrimenti non saremmo a questo punto. Ma tutti abbiamo un’ottima giustificazione: la paura. Ci troviamo di fronte a qualcosa che non avevamo mai visto prima. Un luogo comune retorico, che cita una frase di Roosevelt di fronte alla Depressione, dice che dobbiamo aver paura solo della paura stessa. In questo caso non vale. Sfidare il virus con esibizioni di ottimismo non ha senso. Meglio temerlo. E isolarlo, spezzandone la progressione. I meridionali del Nord che prendono il treno nella notte per tornare a casa certamente sbagliano. Accettano così il rischio di portare il virus a parenti e amici, in comunità che finora ne erano rimaste relativamente immuni. Ma fuggono dal rischio di restare da soli, magari di ammalarsi, lontano da casa. Triste destino quello dell’emigrante, quando diventa straniero anche in patria, e nei luoghi d’origine lo accolgono mettendolo in quarantena.

Anche gli abitanti del Nord in fila davanti agli impianti di risalita per godersi l’ultima neve di primavera sbagliano, e forse per più futili motivi. Ma era chiaro fin dall’inizio che per noi italiani la cosa più difficile sarebbe stata rinunciare al nostro «way of life», trasformarci in animali asociali, adattarci alle regole di un’economia di guerra, soprattutto di fronte a una bella giornata di sole. Stanno sbagliando i nostri giovani. Nelle famiglie è difficile convincerli a non uscire la sera, e ordinarglielo non sappiamo più, perché la nostra generazione di genitori è stata la prima a ribellarsi ai padri, ma anche la prima a obbedire ai figli. I ragazzi si sentono invulnerabili, e sottovalutano quanto possano vulnerare chi è più debole di loro. Ma è colpa nostra. Abbiano detto per settimane che morivano solo i vecchi e i malati, che non c’era da preoccuparsi, e ora chiediamo loro il coprifuoco. Sbagliano le autorità di governo. La confusione di decretidell’altra notte non è stato il primo passo falso, e c’è da temere che non sarà l’ultimo. Abbiamo regole inadatte a un’emergenza come questa, bisogna consultare centinaia di persone in venti regioni diverse prima di prendere una decisione, le fughe di notizie sono all’ordine del giorno. Se stiamo facendo oggi cose che si potevano fare già ieri, è chiaro che le scelte compiute finora non sono bastate. Le stesse norme adottate sono così eccezionali che non si capisce bene come applicarle: per buona parte della giornata di ieri gli imprenditori si chiedevano se le merci possono viaggiare, i pendolari se possono viaggiare, i lombardi, gli emiliani, i veneti e i piemontesi se tra una provincia e l’altra ci si può spostare.

Per non diventare grida manzoniane, i decreti hanno bisogno di norme applicative e di controlli. Ma chi se la sente di litigare mentre la casa brucia? Chi può scagliare la prima pietra? Con l’eccezione dei medici e degli infermieri, che stanno combattendo in prima linea, rischiando la salute e sopperendo alle deficienze di un sistema sanitario impoverito negli anni, ognuno di noi ha qualcosa da correggere nei suoi comportamenti prima di puntare l’indice accusatorio. C’è infatti solo una situazione peggiore di quella che stiamo vivendo; ed è l’esplosione di forme di egoismo sociale e di anarchia, e il dissolversi dell’autorità di chi tiene il timone. Ci sarà tutto il tempo per fare i conti di questa crisi: il panorama politico ne uscirà così stravolto che oggi è inutile per tutti attardarsi nei conflitti di prima. Ora il dovere civico di ognuno di noi è solo di dare una mano, di fare la sua parte, di accettare i sacrifici richiesti. Da molto tempo abbiamo imparato a vivere di soli diritti. È giunto il momento — accade nella storia di una nazione — dei doveri.

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