editoriale

«Il nome della Rosa», serie tv tra il buio del romanzo e la luce della realtà

Padre Enzo Fortunato Redazione online
Pubblicato il 05-03-2019

I dati di ascolto sono da record, e ieri sera, mentre guardavo con i miei confratelli la fiction tratta dall’omonimo romanzo «Il nome della rosa» una delle frasi più frequenti che sentivo bisbigliare durante la visione era «ma non è così la vita nei conventi!». Un’esclamazione che voleva sottolineare il profondo divario esistente tra la vita romanzata raccontata in questo splendido telefilm e la vita reale dentro le grandi abbazie e le comunità religiose certamente più ricca e piena di entusiasmo. E forse questo divario si è fatto ancora più palese nel tema centrale di tutto il romanzo, ovvero quello della strumentalizzazione del sapere. Nel film infatti, la conoscenza - vietata o divulgata ad arte - è mista alla ricerca del potere. A voler esercitare un qualche tipo di forza sul prossimo, in questo caso sui confratelli. Allo stesso modo mi è sembrato vedere una forte contrapposizione tra la «luce» dei conventi della vita reale e il buio che sembra avvolgere il racconto.

La ricerca e lo studio


Certamente la fede è un intreccio di luce e di tenebra: possiede abbastanza splendore per ammettere, abbastanza oscurità per rifiutare, abbastanza ragioni per obiettare, abbastanza luce per sopportare il buio che c’è in essa. Si potrebbe essere portati a pensare che la fede sia solo luce, certezza, evidenza ma la verità è che anche Abramo sale verso la vetta del Moria armato, sì, di fede ma anche di paura e col cuore segnato dall’oscurità. È per questo suo «intreccio di luce e di tenebra» che la fede non ammette il fanatismo - quello del frate che decide vita e morte in base alle sue convinzioni-, che è una sua orribile scimmiottatura, ma non cade neppure nel dubbio sistematico, riducendosi a mera e sconsolata domanda, di sfiducia verso il prossimo - come in certi momenti di disperazione che si possono leggere nel personaggio del francescano Guglielmo da Baskerville -. Per questo la ricerca e lo studio diviene una delle tante modalità che i francescani, come anche tanti ordini religiosi, usano per servire e non per avere potere.

Il romanzo


Allo stesso modo si vive per amare e non per indagare. Non posso non ricordare quel biglietto che san Francesco scrisse a sant’Antonio, quest’ultimo gli chiedeva il permesso di studiare e approfondire e Francesco lo autorizza purché questo non estingua il rapporto con Dio e il servizio al prossimo. Lo stesso Umberto Eco, come raccontano alcuni studiosi, ebbe ad avere qualche piccolo rimorso in merito al suo stesso romanzo a causa di certe imprecisioni che a noi saranno certamente sfuggite. Ciò non toglie che ci troviamo di fronte ad un capolavoro linguistico dell’ultimo grande umanista europeo che mette in luce l’importanza del francescanesimo -allora come oggi - e come i tentativi di sopprimerlo da parte chi vuole vivere una religione strumentalizzata non sono mancati e non mancheranno in futuro.


Corriere della Sera

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