Cardinal Gianfranco Ravasi, Le culture giovanili
Parto da un passo delle Fonti Francescane che ci fa capire quanto Francesco avesse a cuore i giovani e desiderava che i frati, oltre alla credibilità della propria persona, fossero in grado di proferire parole capaci di penetrare il cuore di molti uditori, e soprattutto dei giovani...
Devo confessare che da ragazzo invidiavo i giornalai perché avevano a disposizione una gamma così vasta di fogli da leggere senza pagare nulla. Ebbene, tra i tanti indizi possibili di una metamorfosi generazionale ce n'è uno che riguarda proprio il rapporto con la carta stampata e che mi ha colpito già anni fa, quand'ero ancora a Milano, direttore della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana. Il Corriere della Sera patrocinava una grande mostra del Codice Atlantico di Leonardo da noi custodito e quindi ogni mattina lasciava in offerta gratuita una pigna di giornali. Giungevano i visitatori adulti e tutti si affrettavano a prenderne una copia. Giungevano anche gruppi di ragazzi delle medie superiori: ebbene, nessuno di loro si sognava di raccogliere quel quotidiano.
A tutti è facile avere una controprova: basta salire al mattino su una metropolitana e verificare quanti studenti abbiano coi libri scolastici un giornale… Tempo fa un mio lettore mi ha scritto: «In un'intervista una volta Lei si è dichiarato culturalmente un eclettico. Ma ci sarà pure un campo di interessi che in questa fase storica considera fondamentale». La risposta è per me facile: la cultura giovanile (e lasciamo perdere le discussioni su questa formula che non vuole essere né censoria né da apartheid). Che sia avvenuto un salto generazionale lo si registra subito a livello di comunicazione. Già in partenza, infatti, mi accorgo che il loro udito è diverso dal mio: mi sono persino esposto all'ascolto di un CD di Amy Winehouse per averne la prova immediata. Eppure in quei testi così lacerati musicalmente e tematicamente emerge una domanda di senso comune a tutti.
La loro lingua è diversa dalla mia, e non solo perché usano un decimo del mio vocabolario. I nostri ragazzi sono nativi digitali e la loro comunicazione ha adottato la semplificazione del twitter, la pittografia dei segni grafici del cellulare; al dialogo fatto di contatti diretti visivi, olfattivi e così via hanno sostituito il freddo “chattare” virtuale attraverso lo schermo. La logica informatica binaria del save o delete regola anche la loro morale che è sbrigativa: l'emozione immediata domina la volontà, l'impressione determina la regola, l'individualismo pragmatico è condizionato solo da eventuali mode di massa (si pensi al tatuaggio, alla movida notturna, alle gang, ai giochi estremi, all'estetica del “trasandato”, del trash e del graffito…).
Il loro passeggiare per le strade con l'orecchio otturato dalla cuffia delle loro musiche segnala che sono “sconnessi” dall'insopportabile complessità sociale, politica, religiosa che abbiamo creato noi adulti. In un certo senso calano una visiera per autoescludersi anche perché noi li abbiamo esclusi con la nostra corruzione e incoerenza, col precariato, la disoccupazione, la marginalità. E qui dovrebbe affiorare un esame di coscienza nei genitori, nei maestri, nei preti, nella classe dirigente. La “diversità” dei giovani, infatti, non è solo negativa ma contiene semi sorprendenti di fecondità e autenticità. Pensiamo alla scelta per il volontariato da parte di un largo orizzonte di giovani, pensiamo alla loro passione per la musica, per lo sport,
per l'amicizia, che è un modo per dirci che l'uomo non vive di solo pane; pensiamo alla loro originale spiritualità, sincerità, libertà nascosta sotto una coltre di apparente indifferenza.
Per questi e tanti altri motivi mi interesso dei giovani che sono il presente (e non solo il futuro) dell'umanità; dei cinque miliardi di persone che vivono nei paesi in via di sviluppo più della metà sono minori di 25 anni (l'85% dei giovani di tutto il mondo). Ed è per questo che, abbandonando le pur necessarie analisi oggettive socio-psicologiche sulla fede nei giovani, ossia sul senso della presenza religiosa in essi, preferirei puntare sulla fede nei giovani, cioè sulla fiducia nelle loro potenzialità, pur sepolte sotto quelle differenze che a prima vista mi impressionano. «Tutti – scriveva Henri Duvernois – dobbiamo avere una gioventù; poco importa l'età nella quale si decide di essere giovani».
Card. GIANFRANCO RAVASI
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