cronaca

Taranto. I genitori in marcia per ricordare i loro piccoli morti per i veleni dell'aria

Redazione Marina Luzi
Pubblicato il 26-02-2019

La città ricorda i suoi angeli: «Non dovevate morire». E poi: «non siamo riusciti a proteggervi».

Ambra, 6 anni, leucemia. Fabiola, 5 anni, tumore al tronco encefalico. Siria, 4 anni, neuroblastoma. Alessandro, 16 anni, fibrosi cistica aggravata irrimediabilmente da inquinanti. Giorgio, 15 anni, sarcoma. E poi Miriam, Rebecca, Mario, Giuseppe, Davild. L’elenco dei bambini di Taranto morti per cause che si considerano legate all’inquinamento, purtroppo è lungo. Insostenibilmente lungo.

La città ieri ha voluto ricordare il dramma, con una fiaccolata silenziosa. Negozi chiusi e lutto cittadino proclamato dal sindaco, Rinaldo Melucci. In migliaia sono scesi in strada per dire basta. Una partecipazione del genere non si vedeva da tanto. Le presenze politiche istituzionali si sono confuse tra la gente, rispettando il desiderio dei promotori dell’idea, l’associazione "Genitori Tarantini". Nessuna bandiera, nessun riferimento ad associazioni o partiti. A svettare, con il loro carico di dolore, solo le foto dei bambini scomparsi.

Sotto una scritta uguale per tutti: "Io dovevo vivere". I dati del Ministero della Salute, Studio Sentieri, quando si parla di inquinamento a Taranto, purtroppo parlano chiaro: + 21% di mortalità infantile rispetto alla media regionale e + 54% di tumori in bambini da 0 a 14 anni, + 20% di eccesso di mortalità nel primo anno di vita e + 45% di malattie iniziate già durante la gestazione.

"Non siamo riusciti a proteggervi"- si legge su uno striscione. «Questi piccoli angeli – racconta uno dei promotori della marcia, Massimo Castellana – sono la sconfitta più cocente per questa città. Facciamo appello al presidente della Repubblica perché si istituisca una Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’inquinamento, proprio il 25 di febbraio. Le mamme della Terra dei Fuochi, quelle della provincia di Potenza, quelle di Pescara del "Patto per l’Abruzzo resiliente", stanno facendo in questo momento la nostra stessa fiaccolata. C’è un senso di comunità che è nazionale, quando si pensa a siti così altamente inquinati ed istituire una Giornata per le vittime, significa dichiarare ufficialmente che di inquinamento si muore».

Ieri ricorreva anche il primo mese dalla scomparsa di Giorgio Di Ponzio, morto per un sarcoma, dopo tre anni di calvario. «Abbiamo costituito un’associazione – spiega mamma Carla – che si affianchi all’oncologia pediatrica di Taranto. Noi sappiamo di cosa c’è bisogno e le problematiche a cui si va incontro come genitori. Speriamo di riuscire a migliorare le cose tutti insieme. Mi fa commuovere vedere tutti questi bambini in strada con i loro genitori. Questo mi dà la forza di andare avanti per aiutare questa città, insieme al pensiero del sorriso e della gioia di vivere di mio figlio. Fino all’ultimo momento non si è arreso e anche noi non ci arrendiamo a veder morire Taranto».

«Dobbiamo spogliare finalmente la questione ambientale e sanitaria da ogni orpello politico e strumentalizzazione e dare voce ai cittadini e al loro dolore – commenta Alessandro Marescotti dell’associazione ambientalista "Peacelink" – è importante scendere in strada ora che la Corte Europea di Strasburgo si è espressa dicendo che lo Stato non ha tutelato i cittadini in materia di diritto alla salute. Questa è la risposta dell’opinione pubblica. Spesso si fa passare Taranto per una città indifferente ma ha una forza latente che oggi è lampante».

«Sono venuta apposta da Genova– racconta la mamma di Siria – per essere vicina a questi genitori e continuare ad urlare il mio dolore. Io ho lasciato Taranto perché avevo bisogno di darmi un’altra possibilità per tornare a vivere. Mia figlia si è ammalata ad un anno e mezzo. Le hanno diagnosticato un neuroblastoma al quarto stadio. Oggi lo dicono, che c’è un nesso con l’inquinamento. Nel 2009 era un tabù. Nessuno ne parlava». Serena Summa è la zia di Siria. Porta con sé un cartellone con il volto di un altro bambino, Giuseppe. «Non lo conoscevo ma poteva essere mio nipote. Potevano esserlo tutti. Ho 36 anni ed ho deciso di rimanere qui, a lottare – si sfoga – ma ho paura all’idea di mettere al mondo un figlio. E come me tante coetanee. Ne parliamo. È incredibile che si sia arrivati a temere una gravidanza». Dietro di lei un grande striscione. "Tutto l’acciaio del mondo – dice – non vale un solo bambino".


Marina Luzzi - Avvenire

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