Shoah, nella parrocchia di Roma che salvò la vita a quindici bambine ebree
Successe nell’ottobre del 1943 a Santa Maria ai Monti
«Aida Sermoneta. Albergo all’ombra di queste volte». La calligrafia è elegante, sbiadita dal tempo. I caratteri tremolanti per l’attrito del carboncino sulla parete ruvida o forse per la paura di quei momenti, quando dalla finestrella rettangolare, della grandezza di un mattone, si sentiva nitidamente lo strepito funesto dei soldati che marciavano sui sampietrini di via Baccina. Aida era poco più che una bambina in quel drammatico ottobre 1943, quando la furia nazista si abbatté su Roma, spezzando per sempre l’esistenza di oltre duemila ebrei. Forse già orfana, sicuramente abbandonata ad un destino che definire crudele sarebbe retorico. Come lei, altre quattordici bambine: ebree, minorenni, la più piccola aveva 4 anni, tutte strappate dai loro letti e dall’abbraccio dei genitori. Erano accolte dalle suore cosiddette «cappellone», le Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli, e rifugiate in un corridoio lungo sei metri e largo due in cima alla parrocchia di Santa Maria ai Monti.
È in questa chiesa barocca che sorge a pochi passi dal Colosseo, nel cuore di uno dei più antichi rioni dell’Urbe, i cui sassi furono calpestati da Paolo di Tarso, che quindici giovani donne sono scampate alla deportazione nei lager e ad una morte certa per asfissia da Zyklon B. Venivano da diversi quartieri di Roma e per una serie di vicissitudini si sono trovate insieme in quei giorni di orrore sotto il tetto del Convento delle Neofite, l’enorme palazzo confinante alla parrocchia che dal 1991 ospita la facoltà di Architettura di Roma Tre. Da una porta comunicante con quella che oggi è la sala del catechismo, serrata con un muro evidentemente posticcio, le suore, alla prima avvisaglia di perquisizioni o rastrellamenti, facevano fuggire le bimbe in parrocchia. All’interno di quel luogo che gode dell’extraterritorialità vaticana nessun soldato avrebbe mai messo piede, sarebbe stato uno scandalo internazionale. Le chiese e i monasteri profanati dalle SS in tutta Europa raccontano un’altra storia, ma a Roma è andata così. Nessun tedesco entrò mai in Santa Maria ai Monti e a nessuna delle bambine che albergava «all’ombra di queste volte» fu torto un capello.
Una è ancora viva, le altre decedute da anziane. Di loro rimangono disegni e incisioni sui muri. Bambole, pesci stilizzati, scritte in ebraico, figure indistinguibili: forse le loro mamme, forse i soldati, forse la regina Ester con in mano una kallà, il pane dell’offerta. Quei pochi scarabocchi rappresentavano per le piccole ospiti un momento di svago durante gli attimi di terrore. Dalle testimonianze non si comprende se fosse presente anche un adulto a tener loro compagnia, a stringere la mano quando dalla strada si udivano i rumori di spari, motori, porte sbattute. Il nascondiglio si raggiunge dopo una salita di oltre trenta metri in una scala a chiocciola che va stringendosi di gradino e gradino. Una spirale angosciosa per un adulto, figuriamoci per un bambino. In quel tempo, tuttavia, l’unica strada verso la salvezza. La più grande del gruppo la percorreva quattro-cinque volte al giorno, per andare a recuperare il pranzo o la cena che il parroco e le suore lasciavano dietro la porta. Per le bimbe ebree il rifugio provvisorio si trasformava a volte in un soggiorno anche di 72 ore.
«Dovevano sparire mentre Roma era sotto assedio», spiega don Francesco Pesce, da undici anni apprezzato parroco di Santa Maria ai Monti. Fa da Caronte in questo fiume di simboli, memorie forti, frammenti di storia, accompagnando fino ad una porta nello sgabuzzino che il parroco di allora, don Guido Ciuffa, occultava con paramenti e tendaggi. Prima di avventurarsi in queste curve oscure, don Francesco accende la torcia e si infila il pantalone nei calzini: tra polvere ed escrementi dei piccioni è facile sporcarsi. Salendo per le scale, il fiato si accorcia e la vista si abitua lentamente al buio, i rumori della strada si continuano a udire nitidamente, come pure la voce del prete che celebra messa. Sopra l’abside, dove probabilmente le bambine giocavano nei rari attimi di serenità, bisogna girare ancora un angolo dietro un’impalcatura. Qualcosa scricchiola sotto i piedi: sono le carcasse degli uccelli morti. Un faro di luce proviene da una stanza impolverata dove sono conservati accrocchi di legno consunto, un tempo tavoli sui quali le rifugiate consumavano i pasti.
Se non la indicasse don Francesco, non ci si accorgerebbe della scala a pioli sul muro di fronte. Montandoci sopra si arriva al cunicolo. Ecco il nido delle bimbe, ecco l’alloggio più remoto della parrocchia lontano dagli occhi di nazisti e delatori. Più in alto, solo le campane. All’interno è pieno giorno ma sembra notte; neppure la torcia dello smartphone riesce a far scorgere i dettagli delle pareti. Le quindici sopravvissute vi hanno impresso la loro firma indelebile. Quasi tutte hanno continuato fino alla vecchiaia a visitare questi luoghi e, finché le gambe gliel’hanno consentito, si sono arrampicate fino in alto con i familiari. Da anziane, invece, si inginocchiavano a piangere davanti alla porta. Proprio come ottant’anni prima. In memoria di quella tragedia, nel 2007 è stata deposta in Santa Maria ai Monti da «superstiti riconoscenti» una targa in marmo che recita: «In questo luogo nell’inverno 1943-44 il parroco della Madonna dei Monti, le Figlie della Carità e le Figlie del Sacro Cuore, accolsero i figli d’Israele perseguitati ed oppressi. All’ombra di queste mura trovarono rifugio ed ebbero salva la vita».
Ebbero salva la vita grazie anche alla solidarietà degli abitanti del quartiere, che non cedendo a minacce né promesse di ricompense cospicue ma bagnate di sangue, fecero scudo a queste bambine dall’ondata di morte che travolgeva la Città Eterna. «Le bimbe sono state salvate dalle suore, ma soprattutto dall’amore dell’intero popolo di Dio», ricorda don Francesco. «Tutti sapevano che c’erano ebrei in parrocchia, ma tutti hanno mantenuto il segreto. Queste piccole donne facevano parte della comunità cristiana. Qui si è sperimentato il segno di quella fraternità che il Papa invoca oggi con l’enciclica “Fratelli tutti”». Certo, le violenze, il terrore di ritorsioni sui propri cari, hanno frenato molti atti di eroismo. Non tutti ebbero la capacità di pagare l’aiuto al prossimo con la propria vita, come il sacerdote antifascista Pietro Pappagallo, assassinato nelle Fosse Ardeatine. Ma non si può biasimare nessuno. Nel rione c’è ancora però chi, dopo decenni, prova rimorso per non aver potuto fare di più, chi si sveglia di notte perché gli sembra di sentire grida d’aiuto, chi si ferma sulle pietre d’inciampo delle famiglie Di Castro e Di Consiglio, sotto un palazzo a pochi metri dalla parrocchia, e posa un fiore in silenzio. Sono le stesse persone che, sotto gli ombrelli in una piovosa domenica mattina, partecipano alla messa a Santa Maria, dove abita una famiglia di migranti di fronte all’appartamento del parroco. Don Francesco ne fa cenno rapidamente: «È una storia di accoglienza che continua». (La Stampa)
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