Povertà e disagio, una riflessione per il futuro
Nel nostro Paese si va pericolosamente allargando l’area del disagio e della povertà.
Questo allargamento è particolarmente intenso nei periodi, come l’attuale, di diffusa crisi economica la quale, pertanto, si ripercuote di più sui ceti già disagiati.
È chiaro allora che c’è qualcosa che non funziona nel nostro meccanismo di produzione e distribuzione del reddito se è vero, come è vero, che si verifica esattamente il contrario di quel che dovrebbe accadere: la crisi, infatti, dovrebbe mordere di più i ceti già favoriti (che perderebbero così in tutto o in parte solo il superfluo) e dovrebbe proteggere i meno abbienti evitando che le risorse su cui essi possono contare scendano al di sotto del livello di sussistenza.
Questi squilibri sono ormai insostenibili e chiamano in causa tutti coloro che credono nei doveri di cittadinanza e sentono cioè il dovere di non assistere passivamente al crescente disagio di molti loro simili ma di fare qualcosa.
Sotto questo aspetto non vi è sostanziale differenza tra chi s’ispira ai valori della cultura cattolica e chi s’ispira ai valori di una bene intesa cultura laica perché entrambe le culture, sia pur con motivazioni e per strade in parte diverse, conducono alla medesima conclusione.
La verità è che dobbiamo intervenire sul nostro Welfare inteso come l’insieme di misure attuate dallo Stato per consentire, come del resto vuole la nostra Costituzione, a tutti i cittadini un livello di vita dignitoso. Purtroppo sotto questo aspetto la nostra Costituzione non è stata completamente attuata. Fin dagli anni ’50 gli interventi di Welfare si sono svolti al di fuori di una cornice razionale e sotto la spinta di bisogni ed esigenze contingenti con il risultato che il nostro sistema di Welfare non risponde completamente alle nostre necessità. Pur avendo fatto molto nei decenni scorsi non ci siamo mai posti con la dovuta chiarezza il problema del posto che deve avere la spesa del Welfare nella gerarchia della spesa pubblica.
Ne è scaturito un sistema che potremmo definire residuale nel senso che le spese per il Welfare vengono calibrate non tanto in funzione delle necessità delle persone ma in funzione dell’esigenza di tenere in qualche modo in ordine i conti pubblici: con il prevedibile risultato che spesso sono proprio le spese per il Welfare ad essere tagliate all’insorgere dei primi squilibri dei conti pubblici.
Non possiamo continuare così. Chi vuole una società coesa e solidale deve adoperarsi perché il Welfare sia costruito con chiarezza e – per usare un termine di moda – con trasparenza, affinché sia chiaro che cosa si fa per i cittadini effettivamente bisognosi e quale posto la relativa spesa occupa nel novero delle spese pubbliche.
Come si può procedere per costruire una rete protettiva a favore di chi ha veramente bisogno?
È bene chiarire subito che un radicale riordinamento del Welfare non è fattibile senza una consistente crescita della nostra economia e senza un recupero di efficienza della nostra pubblica amministrazione (assolutamente possibile). In assenza di queste due ultime cose, il riordinamento del Welfare sarebbe infatti affidato alla sola azione redistributrice del reddito mediante lo strumento fiscale; azione che per varie ragioni sarebbe destinata all’insuccesso e creerebbe altri tipi di squilibrio.
Dobbiamo crescere di più perché la crescita crea occupazione e, come sappiamo tutti, l’occupazione è il primo e più sicuro modo per contrastare il disagio sociale. Inoltre la crescita genera, a parità di altre condizioni, un aumento delle risorse statali con cui si può finanziare il Welfare. Per crescere di più dobbiamo accantonare l’idea che la ripresa è legata a fattori esogeni sui quali non possiamo agire sicché non ci resta altro da fare che disporsi in fiduciosa attesa della ripresa. È una strada sbagliata, questa, che come l’esperienza degli ultimi anni insegna ci porta a crescere sistematicamente meno dei nostri partner europei e comunque meno di quel che dovremmo e potremmo. Serve il coraggio di dare un diverso ruolo allo Stato con buona pace di quelli che pregiudizialmente sono contrari sempre e comunque all’intervento pubblico. Certo, non dobbiamo usare lo strumento dell’impresa pubblica e del finanziamento agevolato. Dobbiamo usare strumenti più agili, più semplici, meno invasivi tanto più che i problemi che oggi abbiamo di fronte sono diversi da quelli che portarono in anni ormai lontani alla nascita delle imprese pubbliche e all’introduzione del finanziamento agevolato e dei contributi a fondo perduto. Dobbiamo, in particolare:
- far leva sui punti di forza del nostro Paese (e non sono pochi);
- renderci conto del valore insostituibile dell’impresa e fare nei suoi confronti, senza tentennamenti, un’adeguata politica.
Sul primo punto abbiamo molti elementi di forza (per citarne solo alcuni, si pensi all’agroalimentare, alla moda, al design, alle attrazioni turistiche e storiche, ecc.). Ma per far leva su questi elementi di forza, soprattutto all’estero, occorre una potenza finanziaria ed organizzativa non alla portata dei nostri imprenditori, certamente abili e a volte geniali, ma non in grado di affrontare il rischio e le complessità organizzative dell’operazione. Dobbiamo far conoscere, nel mondo, l’Italia e il suo stile di vita e questo non lo si può fare senza un’azione di coordinamento e di assunzione del rischio da parte dello Stato. Da questa azione, se sarà coronata dal successo, lo Stato potrà, peraltro, trarre anche un vantaggio in termini economici attraverso royalties, plusvalenze dalla cessione di partecipazioni, ecc..
Per quanto concerne le imprese ci dobbiamo rendere conto che esse sono il vero motore della crescita e dello sviluppo e hanno regole di funzionamento molto semplici, che non possono però essere disattese senza metterle in crisi. Dobbiamo costruire e diffondere una cultura d’impresa, oggi praticamente assente, senza la quale non possiamo illuderci di fare molta strada. Dobbiamo avere imprese sempre più agili, meno oberate di formalismi e rituali che in molti casi generano un’inutile aggravio di costi. Non pensiamo che il contenimento dei costi possa essere ottenuto a danno della tutela dei lavoratori; anzi noi auspichiamo un maggior collegamento tra Welfare e rapporti di lavoro in modo che quello che non fanno eventualmente più le imprese lo faccia il sistema di Welfare senza alcun pregiudizio per i lavoratori. Sotto questo aspetto è prezioso il ruolo dei sindacati.
Nella pubblica amministrazione c’è molto da fare per recuperare efficienza e ridurre i costi, ma al punto in cui siamo non vanno fatti interventi episodici e con una sottile velatura punitiva nei confronti dei dipendenti pubblici. Occorre un’azione in profondità che riguardi le cose che fa la pubblica amministrazione (molte delle quali sono ormai inutili) e i modi in cui le fa (in molti casi ormai obsoleti). Un’azione di questo tipo richiede tempi lunghi (misurabili in molti anni) e persone di altissimo profilo professionale. Non illudiamoci di farlo in fretta e in modo dilettantesco.
In questo quadro si può procedere al riordinamento del Welfare ispirato a chiari criteri di razionalità, efficacia, efficienza, semplicità ed equità. Probabilmente il riordinamento del Welfare imporrà anche l’esigenza di qualche cambiamento nella struttura del bilancio statale allo scopo di dare alle spese per il Welfare (o a talune di esse) uno dei primi posti nella gerarchia della spesa pubblica e per evitare che esse possano essere tagliate per riportare i conti in ordine. Il Welfare deve dare a chi veramente ha bisogno e lo deve dare con semplicità senza procedure macchinose e senza appiccicare addosso al destinatario l’etichetta di povero.
Come si vede questo, in nuce, è un vero programma di governo e sarebbe desiderabile che le persone trovassero in queste idee motivi di aggregazione e di pressione sulle forze politiche.
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