La Pianura teatro dell'anima
La biografia di Marco Belpoliti è anche un racconto della sua terra
Di cosa è fatta e da dove viene la vita di un uomo? Sembrano queste le domande sottotraccia dell' ultimo libro di Marco Belpoliti titolato Pianura e appena pubblicato da Einaudi. Sappiamo rispondere: la vita di un uomo è fatta innanzitutto dalla sua provenienza, dai timbri delle sue origini che non sono solo quelli familiari, ma anche quelli storici, sociali, culturali, geografici. Ogni biografia si radica in una terra. In gioco in questo libro è il farsi di una vita nel farsi della sua memoria. Belpoliti che ha dedicato una parte significativa della sua opera di studioso alla letteratura di Primo Levi ne ha evidentemente acquisito la lezione: la memoria non può essere considerata come un cimitero di ricordi, un contenitore inerte del passato, un baule dove depositare quello che non esiste più. Piuttosto la memoria è una presenza sempre viva, una insistenza che ci accompagna. Nella forma ustionante del trauma in Levi («una pena desolata come certi dolori ricordati della prima infanzia», scriveva), oppure in quella di una sottile poetica della percezione come accade in questo libro. In esso l' autore racconta infatti di un viaggio in una memoria che non ricalca però lo svolgimento canonico dell' autobiografia nelle sue tipiche scansioni evolutive (infanzia, adolescenza, età adulta, vecchiaia), quanto piuttosto si snoda attraverso un allargamento di orizzonte, un' estensione della memoria individuale in quella storico-collettiva. Non a caso il suo centro gravitazionale non è costituito dalle figure dei propri familiari - dei quali veniamo a sapere poco o niente in questa narrazione: «dell' infanzia non ho molti ricordi, solo delle immagini che mi appaiono come lampi della testa» - ma dalla figura geografica della pianura padana. È qui che si svolge la vita dell' autore - dalla nascita alla vita adulta -, ed è questo l' ombelico di questa autobiografia intellettuale che Belpoliti ci consegna.
Si tratta di una scelta particolare che sposta le vicende biografiche ben al di là del quadro narcisistico dell' Io. Il racconto, anzi, tende a sommergere l' Io da una moltitudine di nomi propri, monumenti, luoghi geografici, leggende, libri. Si tratta di uno sciame irrequieto che però insiste nel ruotare attorno al mistero centrale della pianura. Perché è proprio in questo mistero che l' autore riconosce la sua provenienza e la sua ultima destinazione. Nella sua distesa a perdita d' occhio la pianura riduce forzatamente il prestigio autorale dell' Io: «tu sei un puntino all' orizzonte, un puntino che non si vede neppure, al massimo sei poco più grande di un moscerino ». L' estensione priva di rilievi della pianura contrae la biografia a una molteplicità di incontri orizzontali più che disporla in una archeologia verticale. Quello che interessa all' autore nel raccontare la propria vita non è l' addentrarsi in una "geologia della profondità", ma descrivere percettivamente le sottili sfumature della superficie. Per questo la sua memoria «non è una stratigrafia, una torta millefoglie, ma piuttosto la forma piatta dove sono nato». Su questa scena orizzontale accadono però una moltitudine di incontri. La pianura appare come un grande teatro sul quale si rappresenta la storia degli uomini e quella della natura, quella dei collettivi e quella dell' Io. Gli uomini e la natura: il lavoro infaticabile per disboscare, costruire canali, coltivare, urbanizzare. I collettivi e l' Io: sono gli incontri che abbiamo fatto e che continuiamo a fare che ci hanno fatto essere quello che siamo.
Per questa ragione ogni autobiografia non può che essere una eterobiografia; per raccontare chi siamo non possiamo non raccontare gli altri che ci hanno fatto essere come siamo. L' attenzione che Belpoliti pone nel raccontare la sua terra assomiglia così al movimento che ispira la fotografia di Luigi Ghirri, una delle presenze più significative narrate in questo libro; essa è «fatta di cose antiche ma sempre nuove», di cose già viste che diventano «nuove ogni volta». È ciò che congiunge la fotografia di Ghirri alla pittura di Giorgio Morandi: trovare l' infinito nelle modestia solenne delle cose finite. Ma allora, se lo sguardo sulle cose già viste si modifica tutte le cose possono accedere ad una nuova vita. La pianura si abita così di racconti, leggende, incontri che rivelano il suo fascino: la potenza mitica del Po e il dedalo del suo suggestivo Delta, le anguille di Comacchio, la città di Reggio fatta a losanga o a mandorla, Bologna "la rossa" con i suoi portici, il duomo di Modena, la colonna infame di Milano e altri luoghi in un tempo lontanissimo sommersi dalle acque. Ma il teatro della pianura si abita anche di incontri destinati a imprimersi sulla vita di chi li racconta: il lancio dei libri di Citati, la parola di Camporesi, le rughe di Berger, il Pinocchio di Jervis, il teatro dionisiaco di Marco Martinelli, la nostalgia di Tondelli, la storia dei CCCP di Giovanni Lindo Ferretti e quella di tanti altri ancora.
Il piatto della pianura mostra così tutte le sue infinite pieghe. La nebbia resta per questo la sua cifra percettiva più sensibile. Essa «consente di immaginare, di guardare, di vedere quello che non si riesce a vedere quando tutto è completamente visibile». Di nuovo tocchiamo qui uno dei cardini della lezione estetica di Luigi Ghirri: il massimo di opacità coincide con il massimo di trasparenza. Perché, scrive Belpoliti, «quando cala la nebbia tutto cambia. Tutto diventa misterioso, e il mistero che si cela dentro la nebbia contiene un ricordo, qualcosa simile al ricordo della madre». (La Repubblica)
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