La cura dell'affetto
'I parenti in rianimazione aiutano a guarire prima'
«Ma se in rianimazione entra tutti i giorni don Luca, il cappellano, perché non possono farlo anche i parenti dei malati?». È cominciato tutto così, due mesi fa, con l' osservazione di un' infermiera. Ospedale di Pisa, reparto Covid. La prima a violare l' embargo è stata la figlia di un anziano paziente che sembrava senza più speranze. Invece. «Ci siamo resi conto che, grazie alle visite di quella giovane donna, il nostro ospite cominciava a migliorare. E poco dopo è stato trasferito in un altro reparto. Ora sta guarendo, poco alla volta. Sta meglio. Perché avere vicino i propri affetti, nei reparti di rianimazione, fa bene: è scientificamente provato, ci sono fior di pubblicazioni sul tema. E allora basta coi divieti: cerchiamo di umanizzare la cura» dice Paolo Malacarne, responsabile della rianimazione dell' ospedale pisano.
Il medico racconta che, da quando ha permesso ai familiari di visitare gli ospiti «particolarmente vulnerabili e fragili», le condizioni delle vittime più gravi della pandemìa sono «migliorate in maniera evidente». Almeno una mezz' ora al giorno la visita. I primi otto ospiti sono tutti passati al piano di sotto, quello dei casi meno gravi. Sostituiti da altri, che a loro volta stanno lasciando i loro posti-letto. Molti episodi diversi, però progressi così costanti che la giunta regionale toscana - per la prima volta in Italia - ha dato il via libera alle visite nelle strutture sanitarie (ospedali, case di cura, Rsa) per i parenti dei malati gravi di Covid. Con attenzione assoluta al protocollo, naturalmente. Ma finalmente un contatto dopo tutti i divieti e le distanze.
«Una volta potevi vedere i tuoi cari da una finestrella per pochi minuti: perché? Sono più di trent' anni che nei reparti di rianimazione abbiamo cominciato con questo percorso», insiste Malacarne. «Posto letto, malato, monitor, respiratore, medico, infermiere. E familiare del paziente. Era valido per i malati cardiologici, ha dimostrato di esserlo anche per quelli di Covid. Ci sono regole da osservare per chi entra nel reparto, ed è giusto: ma sono le stesse di chi ci lavora. Medici, infermieri, operatori socio-sanitari. E così per il tecnico che entra nella stanza per occuparsi di uno strumento rotto, o la persona che fa le pulizie. Se va bene per loro, perché non dovrebbe essere lo stesso per una moglie o una figlia che siede su di una sedia accanto al letto della persona cara?».
A Pisa, il cosiddetto "esperimento" è cominciato il 26 ottobre. Da allora, nell' ospedale non ci sono stati casi di positività al virus. «I pazienti sono passati a reparti meno problematici. Per quelli intubati, stare con la testa dentro un casco due settimane per 20 ore al giorno è una tortura anche, o forse soprattutto, psicologica, che non auguro a nessuno: anche un solo istante di amore è fondamentale», rivela Malacarne. Molti pazienti raccontano come l' ostacolo più difficile da superare sia la solitudine: «Mio padre mi ha confessato che stava impazzendo e voleva arrendersi: ma quando mi ha visto accanto a lui, nel letto di ospedale, a trovato la forza di reagire », racconta Francesca C., figlia di un paziente che è ancora ospedalizzato ma che ha ripreso a respirare autonomamente. E così Mario S., che va tutti i giorni a trovare la madre di 71 anni: «Da quando sono entrato in reparto e le ho stretto la mano, è stato come se avesse ripreso le energie e la voglia di vivere». Malacarne sorride: «I risultati sono evidenti ».
Il 70 per cento dei casi può essere aiutato dalla presenza di parenti, confermano i dati raccolti e pubblicati da Francesco Corradi e gli altri collaboratori del primario pisano. Che sottolineano come la ventilazione in casco (in un paziente sveglio) provochi un importante stress emotivo e psicologico: «Stanno in una "bolla" ma vedono tutto quel che accade, restando continuamente a contatto con la morte. La presenza di un familiare risulta fondamentale per la tenuta psicologica e l' aderenza al trattamento. Ecco perché avere i parenti vicino non è solo una questione umana, ma terapeutica». (La Repubblica)
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