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Reggio Calabria. «Io, figlio di ’ndrangheta salvato da un sacerdote»

Redazione Avvenire
Pubblicato il 06-05-2019

Possibile grazie a "Liberi di scegliere”, rete di associazioni e istituzioni che ricostruisce il futuro

«Io sono Giosuè, sono nato e cresciuto in una famiglia di ’ndrangheta ». Si presenta così, mentre si appresta a raccontare la sua storia, colui che è a tutti gli effetti uno dei precursori del Protocollo “Liberi di scegliere”, la rete di associazioni e istituzioni, finanziata coi fondi dell’8Xmille, che permette ai figli dei mafiosi a cui è stata sospesa la responsabilità genitoriale, di costruirsi un futuro senza ’ndrangheta. Il “padre”, di questo modello è Roberto Di Bella, attuale presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, ma Giosuè fu il primo dei minori allontanato dalla propria famiglia di mafia. Infatti, cresciuto in un paese della Piana di Gioia Tauro, nel 1988, a soli 17 anni Giosué finisce nel carcere minorile di Reggio. Lì fa un incontro che gli cambierà la vita. Quello con don Italo Calabrò, allora vicario generale della chiesa Reggina.

Giosuè, cosa ricordi di quegli anni?

Sono cresciuto in una famiglia mafiosa e in un ambiente mafioso. Quando ero piccolo sono stato in collegio, lì ho conosciuto tanti ragazzini che oggi hanno cognomi “importanti”, che poi ho ritrovato sui giornali. Lì c’era un disagio sociale forte, sono nato in una realtà dura. Quando avevo 15 anni cominciavo a capire e a entrare nel meccanismo. A 17 anni sono finito prima davanti al Tribunale e poi in carcere minorile. Lì ho cominciato a maturare una riflessione, avendo tutto il tempo per riflettere (ride, ndr) ho deciso di fare qualcosa per cambiare il mio destino.

Che reato hai commesso?


Diciamo che finii trascinato in quella storia perché commisi degli errori ma non commisi direttamente il fatto. Però avevo dei “doveri”, non potevo fare nomi, perciò finii in galera. In carcere ho conosciuto don Italo Calabrò, venne in visita. Anche le assistenti sociali mi hanno aiutato tanto. Uscii col condono di pena e fui affidato ai servizi sociali.

Forse il carcere fa “punteggio” in certi ambienti...


Sì sì, quando sono uscito, per la mia famiglia era come se avessi preso la laurea. Se fossi tornato, l’avrei fatto da “uomo”, da persona che ha man- tenuto l’onore, non ha parlato. Avevo superato la prova con 30 e lode. Ho guadagnato rispetto, saluti da gente che non mi considerava. Queste sono le “virtù” della ’ndrangheta.


Un’antieducazione. Questo pesa molto su un ragazzo, vale ancora oggi?


Su un ragazzino di 17 anni che ha bisogno di sentirsi forte e protetto, questo può dare una pericolosa falsa sicurezza. È per questo che, quando sono uscito, don Italo venne a prendermi.


Fosti tu a cercare lui?


Io ho maturato la scelta di non tornare a casa, dovevo fare qualcosa per me,
cercare un’altra strada. Altrimenti quello che mi aspettava era fare “carriera” in quella famiglia, rischiare la vita, rischiare il carcere.


Quindi come è avvenuto l’incontro con don Italo?


Furono le assistenti sociali del Tribunale per i minorenni a metterci in
contatto. Lui era una persona che parlava all’altro come se fosse il suo migliore amico. Quando lo vedevi sapevi che se avessi bussato alla porta avrebbe aperto. Anche se era un prete “importante” non si dimenticava di nessuno.


Qual è la cosa che ti ha detto che ti è rimasta più impressa?


Non è tanto ciò che diceva, ma ciò che faceva ad aver fatto la differenza per me. Voleva che partecipassi alle riunioni dell’Agape (associazione di solidarietà da lui fondata), che sentissi parole diverse, parole d’amore: erano riunioni molto diverse da quelle a cui ero abituato, qui si progettava come aiutare il prossimo. Mi portava ai convegni in cui si parlava di contrasto alla mafia. Non c’è stata una cosa singola, particolare. Quando è morto, forse. In quel momento, io andai da lui assieme a un grande amico, Francesco. Don Italo era in un pessimo stato fisico ma gli disse: «Ti affido Giosuè». Si preoccupò di me anche sul letto di morte.


Cosa hai trovato dopo esserti allontanato dalla tua famiglia?


Ho trovato una moralità diversa, ho trovato affetto da persone che mi hanno insegnato i veri valori della vita, come quello del rispetto per l’altro. La mia vita è cambiata per sempre, come se fossi rinato.


Davide Imeneo, Avvenire

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