Prodi: le riforme per la crescita
La politica deve invertire la rotta
Il Consiglio europeo appena concluso ha significato una svolta storica per l'Europa che con il Recovery Fund ha avviato, dopo quella che portò all'Euro, una seconda fase di costruzione istituzionale dell'Unione europea. L'occasione, per il nostro Paese, è di straordinaria portata. Si tratta di assumere impegni "da fare tremare le vene ai polsi", che richiedono una iniziativa forte, totale ed immediata del governo. Di tutto il governo, ma con un gruppo di comando il più piccolo e il più autorevole possibile. Le riflessioni che seguono sono antecedenti il Consiglio europeo ma restano valide per una riflessione sul "mondo che verrà".
Le evoluzioni in corso rafforzano la convinzione che l'Italia non possa giocare alcun ruolo al di fuori dell'Europa, che sarà ancora maggiormente il nostro mercato di riferimento. Non dimentichiamo in primo luogo che, in un mondo di crescenti tensioni, possiamo difendere i nostri interessi solo se operiamo a livello europeo. A questo si aggiunge che i beni industriali e i servizi si trovano di fronte a un salto tecnologico più rapido del previsto nell'adozione di innovazioni che, a partire dall'uso dei big data e dei nuovi processi organizzativi, rivoluzioneranno l'intera economia. Tutto questo può essere messo in atto (pur con le difficoltà illustrate in precedenza) solo se si opera su scala continentale.
Rimane però da vedere se, e a quali condizioni, potremo approfittare dell'accelerazione del processo di riorganizzazione territoriale che farà seguito all'auspicata fine di questa pandemia. Se si dovesse ragionare dal solo punto di vista dei costi di produzione la nostra risposta non potrebbe essere che positiva.
Questo perché ci troviamo nella sfortunata situazione di avere un costo del lavoro (oneri indiretti compresi) nettamente inferiore a quello tedesco, a quello francese e a quello di tutti i Paesi europei che più efficacemente sono in concorrenza con le nostre produzioni a media o alta tecnologia verso le quali ci dobbiamo concentrare. Il riesame della localizzazione delle imprese a livello continentale, accelerato dalla pandemia, dovrebbe quindi favorirci nei confronti di tutti i Paesi che operano, come una notevole parte delle nostre imprese, in settori caratterizzati da un'alta complessità. Da molti anni questo non avviene, proprio mentre si è molto intensificato l'acquisto delle imprese italiane da parte di operatori esteri.
La spiegazione di questo comportamento, apparentemente contraddittorio, sta semplicemente nel fatto che gli ostacoli di carattere istituzionale e burocratico sono talmente elevati da costituire una barriera praticamente insormontabile all'arrivo di nuovi investimenti sul nostro territorio.
Senza approfondire gli aspetti particolari di questo problema, mi è sufficiente ricordare come, proprio alla vigilia della presente crisi, siano stati decisi in Europa due grandi investimenti nel settore automobilistico da parte di due tra i maggiori produttori della nuova auto elettrica: la giapponese Toyota e l'americana Tesla. La prima ha localizzato i suoi impianti in Francia e la seconda in Germania mentre, se si fosse presa in considerazione la pura convenienza economica, il costo per unità prodotta sarebbe stato, a parità di qualità, nettamente inferiore in Italia. Una scelta che entrambi i produttori hanno ritenuto irrealizzabile proprio per le deficienze del nostro sistema messe precedentemente in rilievo.
Non mi soffermo ad elencare quali siano queste mancanze e quali possano essere in astratto i rimedi da applicare. Si sono spesi inutilmente fiumi di inchiostro nell'elencare i cambiamenti da mettere in atto nel campo burocratico, giudiziario, fiscale, amministrativo e chi più ne ha più ne metta.
Così come ritengo scontato che la presente crisi accentuerà ancora di più gli aspetti negativi del sistema produttivo italiano, come la sua eccessiva frammentazione, l'insufficiente livello di preparazione di una consistente quota della mano d'opera, le scarse risorse destinate all'innovazione e la necessità di una maggiore capitalizzazione delle aziende. La somma dei nostri vizi pubblici e privati è troppo nota e condivisa per richiamarne ancora una volta le cause e i possibili rimedi. Voglio solo sottolineare che, senza mettere in atto riforme radicali in tutti questi campi, la presenza italiana nel mondo si ridurrà ulteriormente, mentre aumenterà il nostro debito pubblico.
Il che, nel "mondo che verrà", continuerà ad essere per noi il problema più grave.
L'unico rimedio si chiama crescita. Con un impulso immediato nella costruzione o ricostruzione delle reti infrastrutturali: dalle strade alle ferrovie, dall'internet alle reti sanitarie e scolastiche per terminare impostando una politica ambientale a livello nazionale. Cominciare subito ad agire per invertire la rotta. Ed in parallelo una nuova politica nei settori produttivi: rinforzare le poche maggiori imprese rimaste anche con una presenza pubblica di minoranza "alla francese". Una politica attiva in tutti i settori, imparando ad esempio dalla crisi per creare finalmente una nostra catena alberghiera che protegga il futuro del nostro turismo. E quindi un impulso alle piccole imprese a condizione che, fondendosi o trasformandosi, si mettano in linea con la produttività dei nostri concorrenti. Il piccolo è stato bello e la decrescita non è mai felice!
Pubblichiamo l'estratto di un saggio che Romano Prodi ha scritto per Editori Laterza e Cnel e che farà parte del volume "Il mondo dopo la fine del mondo" in uscita ad ottobre. Al volume, che tratta delle conseguenze della pandemia, hanno collaborato 50 studiosi. (Repubblica)
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