PADRE GAETANO: COSI’ SALVIAMO I GIOVANI DETENUTI
Una storia che viene da lontano quella di Padre Gaetano Greco e dei suoi ragazzi “difficili”, adolescenti o poco più che sono ospiti della comunità Amigò. Sono una ventina in tutto, alcuni provengono dal carcere minorile di Roma, altri hanno storie che sembrano incredibili, ma loro lo chiamano “Padre” non solo perché si tratta di un sacerdote, ma perché per alcuni di loro rappresenta l’unica figura familiare.
La sua vocazione nasce grazie a Padre Pio, a cui, a 7 anni, confessa il suo desiderio di farsi prete e dal quale ottiene l’approvazione. Passano gli anni e Gaetano entra nell’ordine dei Terziari Cappuccini dell’Addolorata che hanno un carisma molto specifico: si occupano dei giovani detenuti. Dopo la Sardegna e la Toscana approda a Roma, al carcere di Casal del Marmo. Inizia un percorso destinato a cambiare non solo la sua vita, ma anche quella di molti ragazzi.
Padre Greco, il carcere è un luogo difficile per un adulto, figuriamoci per dei ragazzi
“Non dovrebbero esistere luoghi di pena per i giovani, è un fallimento per tutti: famiglia, scuola, società in genere. È l’ultimo stadio per quelli che vengono dichiarati irrecuperabili dopo aver tentato altre strade”.
Chi sono i ragazzi di Casal del Marmo?
“Emulatori. Sono bulli, si credono onnipotenti, non hanno rispetto per la vita! Quando arrivano hanno l’aria da capetti, un atteggiamento che mantengono sia prima di entrare che durante la permanenza. Sono sprezzanti, credono di essere qualcuno, in particolare quelli che il carcere già lo conoscono, sono i veterani, i maestri. Un ragazzo durante una rapina aveva ucciso un’anziana e aveva minimizzato l’accaduto. Nella sua arroganza pensava di tornare a casa nel giro di due giorni. Fu il padre a dirgli che poteva togliersi quell’aria da grandeur, che era diventato un assassino e il suo posto non era certo a casa. In quel caso l’autorevolezza paterna lo ridimensionò brutalmente. Invece chi arriva la prima volta è terrorizzato, crolla”.
Come si arriva alla condanna, cosa spinge così in fondo?
“Si arriva al carcere perché la violenza e il disagio sono notevolmente aumentati, c’è di tutto: si va dai reati come il furto e la rapina a mano armata allo spaccio di droga e agli omicidi. In particolare furto e spaccio sono i delitti più comuni perché producono subito soldi e quando un adolescente acquisisce uno spazio di autogestione non è più controllabile. Ovviamente per lui diventa sempre più raggiungibile il traguardo economico, fino a quando non varca le soglie del carcere, ma spesso non serve perché molti recidivano”.
Cosa è cambiato da quando lei ha cominciato a fare il cappellano nel penitenziario minorile?
“Tutto. Nel 1981 andavano in carcere i ragazzi colti in flagranza di reato, erano un centinaio a Roma. Nel 1984 la legge 448 ha modificato l’idea della pena, sono state aperte le prime comunità di recupero e quindi ora al centro c’è l’adolescente. Durante il giorno sono occupati in tante attività molto distraenti, il che è giusto, ma prima in carcere era possibile un cammino di fede. Ricordo un ragazzo molto difficile finito lì dentro tre volte che alla fine veniva a Messa. Si faceva adorazione eucaristica, si proponeva una cammino di fede vero, concreto. Un sedicenne decise di fare la prima comunione, fu un traguardo immenso, significava che voleva cambiare vita. Oggi non è più così semplice raggiungere questi cambiamenti”.
Cioè?
“Attualmente sono aumentati gli stranieri, ciò significa che è molto più difficile proporre una verità alternativa alla violenza. Anche se devo dire che, nonostante siano islamici e ortodossi, quando si parla in generale di Dio qualcuno si mostra interessato. Quello che conta è dare testimonianza, proporre la via del cuore. Questi ragazzi non conoscono la parola amore, ma solo soldi, potere e indifferenza. Se si volesse potremmo anche suggerire di chiamare l’Imam o un prete ortodosso, ma nessuno si spende per farlo. Tanta pedagogia laica, ma poco cuore”.
Chi ricorda in particolare?
“Tanti, anzi tantissimi. Alcuni ospiti della mia comunità si sono sposati e hanno avuto figli, alla fine hanno fatto una scelta opposta a quella che pensavano destinata a loro. Ricordo un ragazzo che all’epoca dell’omicidio aveva solo 14 anni. La madre lo aveva indotto a uccidere la compagna del padre, all’inizio non si rendeva conto della gravità, ma con il tempo era in preda a rimorsi terribili, un fardello enorme per tutta la vita. Un altro ragazzino oggi diciottenne sferrò un pugno a uno straniero, perché al padre dava fastidio che cantasse. Quindi una triste storia di razzismo, oggi è ancora sconvolto, ha bisogno di perdono. Assistiamo a una escalation di dolore e di violenza. Però sono anche convinto che si può scegliere dopo aver sbagliato e bisogna insistere, farlo capire, io non mi arrendo”.
Chi sono gli ospiti della comunità Amigò?
Albanesi adolescenti immigrati, africani arrivati con i barconi, alcuni che provengono dal Carcere di Casal del Marmo e altri dal nord Africa. Si cerca di dargli un futuro. Soprattutto ai minori non accompagnati che tra l’altro non hanno commesso alcun reato e che il tribunale ci dà in affidamento; per chi invece viene dal penale la disposizione è molto restrittiva perché sono messi in prova, vengono impiegati in attività di volontariato e recupero sociale. Per chi lo desidera è possibile studiare, ma se infrangono le disposizioni ritornano in carcere. Sono diversi tra loro e non si integrano facilmente. Noi ce la mettiamo tutta, ma dipende molto dalla loro volontà, purtroppo ci sono anche i fallimenti.
Ricorda una storia che si è conclusa positivamente?
“Quella di un ragazzo albanese incensurato, minore non accompagnato, quindi completamente solo, affidato alla nostra comunità. Studiò e l’aiutammo a trovare un lavoro. Mise da parte i soldi e adesso ha un’azienda agricola in Albania. Se si vuole con tutte le proprie forze ce la si può fare”. (Loredana Suma - Interris)
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