Matthias Canapini, il rugbista fotoreporter: viaggiare per raccontare storie
Da maggio segue le principali rotte dei migranti e dei profughi diretti in Europa.
Matthias Canapini è un rugbista con la spasmodica passione per i viaggi e i reportage. Supportato dalle ONG nazionali e internazionali, Matthias ha attraversato i Balcani, la Turchia, il Caucaso, l’Est Europa e la Siria, documentando con passione le tematiche divenute ormai argomento di cattiva propaganda politica. Nato a Fano nel 1992, ha recentemente dato alle stampe “Il passo dell’acero rosso” (Aras Edizioni), un racconto di un’immersione nelle zone colpite dal terremoto del Centro-Italia.
Matthias, hai iniziato a viaggiare impiegando i soldi racimolati facendo il cuoco, l’insegnante di rugby, la vendemmia e la raccolta delle olive. La tua filosofia di vita è: «Meno ho e più sono felice». Quanto ti senti rivoluzionario?
«Tocco attimi di felicità vera quando torno a una condizione essenziale delle cose, come può essere stare seduti intorno a un fuoco o fare il bagno nudo in un fiume di montagna. Le cose importanti della vita sono la salute, il cibo, l’amore e un riparo; tutto il resto è importantissimo ma forse superfluo rispetto alla simbiosi tra uomo e mondo, alle emozioni derivanti dal contatto con la natura. Nella vita come in viaggio, sono felice di potermi muovere a piedi, riempire lo zaino con poche cose, leggere, incontrare l’altro, e scrivere. Non mi sento rivoluzionario, non dico nulla di nuovo; le mie riflessioni sono frutto delle esperienze che mi hanno insegnato tanto. Ogni luogo del pianeta ha le sue piccole rivoluzioni invisibili, certo, ma quella a cui sento di appartenere maggiormente è la rivoluzione del dialogo che sprona a riscoprirsi comunità in un mondo sempre più trincerato».
Il possesso, in fondo, rende poveri.
«Camminare mi riporta sempre alla terra e a me stesso. Mi piacerebbe imparare a morire un pezzetto ogni giorno, lasciare andare il materiale, abbandonare le zavorre, possedere il meno possibile perché alla fine dei giochi rimarranno i nostri pensieri, le cose scritte, le parole dette; fisicamente, però, torneremo tutti a essere polvere e atomi».
Il viaggiatore ha una sensibilità maggiore. Scorge a occhio nudo, ha una percezione immediata per quel che lo circonda. Cosa rappresenta per te il viaggio?
«I miei fratelli e io siamo stati educati al viaggio dai nostri genitori, che già da piccolissimi ci caricavano in macchina per andare a scoprire il Nord-Europa. Influenzato da alcune letture, successivamente ho deciso di partire per raccogliere testimonianze dai margini del mondo, incontrando sfollati, profughi di guerra, disabili, migranti, malati mentali, senzatetto, cittadini impegnati a difendere la propria terra. Il viaggio per me è la necessità di raccontare storie, di stringere mani, di entrare in microcosmi invisibili e tentare molto umilmente di ridare una voce a chi non ce l’ha. La mia voglia di andare oltre i confini – anche interiori – mi ha portato sui campi minati della Bosnia e della Cambogia, in Siria tra le persone in fuga da Aleppo, e nei canali sotterranei di Bucarest che ospitano i reduci dalla dittatura di Ceaușescu. Ho visitato anche i campi-container negli altopiani della Georgia – costruiti per gli sfollati interni del Sud Ossezia –, e il Vietnam, dove l’Agente Arancio sparato negli anni Sessanta-Settanta ha procura ancora gravi deformazioni – fisiche e mentali – a migliaia di bambini. Sono circa 4,8 milioni i vietnamiti affetti da cancro bellico che, dopo decenni, non smette di ammazzare persone innocenti».
E poi ancora Balcani, Est Europa, Caucaso, Turchia, Asia, fino ad arrivare al terremoto del Centro Italia, esperienza che ti ha generato qualche riflessione in più.
«È l’esperienza che più mi ha segnato. Ho raggiunto a piedi il cratere del Centro Italia, tra i pascoli e i borghi sconquassati dal sisma. Una guerra combattuta senza armi, ma che ha provocato un numero altissimo di traumi, feriti, sfollati e morti. Per un anno e mezzo ho camminato con lo zaino in spalla e un bastone, dentro i luoghi colpiti dal terremoto, valicando Umbria, Lazio e Abruzzo, dormendo nei boschi o nei rifugi di fortuna. È il viaggio a cui sono più legato per la bellezza riscoperta a pochi passi da casa mia, ché mi ha permesso di comprendere meglio la resistenza, l’amore e la resilienza di tante persone che – avvicinate dalla disgrazia – hanno saputo far comunità. Durante quel tragitto, pensavo costantemente al fatto che i drammi del mondo ci appaiono sempre lontani, ovattati; in u attimo, però, la tragedia ci può riguardare. Questo pensiero, purtroppo, lo facciamo nostro solamente quando un qualcosa ci tocca nel quotidiano».
Da maggio segui le principali rotte dei migranti e dei profughi diretti in Europa.
«Sì, muovendomi lungo i confini del continente, in quei luoghi di passaggio in cui uomini, donne e bambini tentano la salvezza tra mille attese, traffici, incertezze. Ho iniziato a raccogliere storie da Claviere, da Ventimiglia e dal Passo del Brennero. Da agosto ho intrapreso la rotta balcanica al contrario, dalla Bosnia alla Grecia. Raggiungerò a breve Calais, Lesvo, Melilla e altri luoghi. Al di là della genuinità e dell’orrore di quel che vedo e ascolto, mi accorgo che la Storia, come una ruota, riporta tutto a galla: guerre, dittature, muri. Un giorno di agosto, in Grecia, mi sono scoperto vulnerabile, senza riparo. Ho pensato che un giorno potrebbe toccherà anche a noi emigrare. Ecco, chi vorremo trovare al di là del mare, della frontiera, al di là dell’odio? Dovrebbero tutto abbandonarsi a riflessioni simili per meglio comprendere la dolorosa realtà di chi fugge».
Hai 26 anni e un bagaglio zeppo di insegnamenti.
«La vita di ognuno, con tutti i disagi, problemi, traumi, impegni è di per sé una guerra. La malattia di oggi è il tempo, corriamo sempre, siamo sempre connessi, non respiriamo più, viviamo una vita di proiezioni rincorrendo il domani, facendoci soggiogare dalle paure odierne. Veniamo ingozzati di paure, ma il mondo è pieno di storie belle, il problema è che non ce le raccontano. Dunque, sempre molto umilmente, il mio piccolo invito è concedersi anche solo dieci minuti al giorno per camminare, scendere in strada, guardare il cielo, parlare con il panettiere, tornare al presente.
Meravigliarsi di fronte alle piccole cose che puoi vedere sotto casa. Cercare, calpestare, riabitare luoghi dismessi, marginali, evadere dalla tempesta social per riscoprire la poesia dei luoghi remoti. Questo può essere un antidoto contro l’odio dilagante. Camminare per incontrarsi. È un esercizio che tutti e tutte possiamo fare, ampliato ancora di più nella solitudine dei passi».
Parafrasando José Saramago, «Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono».
«Esatto, e nel frattempo proseguirò il viaggio lungo le rotte dei migranti e dopo chissà; può darsi che mi fermerò nel mio angolo di mondo per cominciare a costruire qualcosa, forse la mia rivoluzione personale. Credo che ci sia un tempo per agire, e un tempo per costruire, ma senza tener conto del secondo punto, il primo è inutile».
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