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Liliana Segre: 'Rifiutai la vendetta, divenni una donna di pace'

Antonio Carioti Ansa
Pubblicato il 29-10-2020

Il libro gratis in edicola venerdì 30 ottobre

Tutto cominciò nel settembre del 1938 per Liliana Segre, quando era ancora una bambina che si apprestava a frequentare la terza elementare. Lo racconta la senatrice a vita nella testimonianza resa a Rondine (Arezzo) il 9 ottobre scorso e pubblicata nel volume Ho scelto la vita, a cura di Alessia Rastelli, in edicola venerdì 30 ottobre con il «Corriere della Sera». Le dissero il papà e i nonni: «Tu non puoi più andare a scuola». All’improvviso era «diventata invisibile»: una reietta da escludere, costretta a lasciare le compagne, senza alcuna colpa se non quella di essere ebrea. Possiamo solo immaginare che trauma sia stato per lei e per migliaia di altri bambini nelle stesse condizioni.

Erano gli effetti più assurdi e crudeli del decreto «per la difesa della razza nella scuola fascista», primo passo della legislazione antisemita introdotta da Benito Mussolini per cementare l’alleanza con il Terzo Reich di Adolf Hitler, l’Asse costituito nel 1936 che avrebbe portato il nostro Paese alla guerra e alla rovina.

Bisogna però chiarire un punto. L’Italia non adottò le leggi razziali perché la Germania lo avesse chiesto. Non esiste alcun documento che dimostri pressioni di Berlino su Roma in quella direzione. Semplicemente il dittatore fascista non voleva essere da meno del suo omologo tedesco, anzi ambiva a rivaleggiare con lui per diventare il punto di riferimento dei vari movimenti di stampo fascista attivi in Europa, animati in genere da una feroce ostilità antiebraica.

Per tornare al decreto che colpì la piccola Liliana, conviene forse andare a rileggere che cosa scriveva nel suo diario all’epoca Giuseppe Bottai, che nel 1938 era ministro dell’Educazione nazionale. Il 2 settembre presenta il provvedimento antisemita in Consiglio dei ministri e confessa di provare «una tal qual commozione» per la sorte degli insegnanti e degli alunni che verranno espulsi. Si rende conto che sta perpetrando un abuso, eppure procede disciplinatamente.

Quando poi gli vengono riferite le critiche di un altro gerarca, Italo Balbo, contrario alle leggi razziali, Bottai replica «che in un regime come il nostro le direttive del Capo si accettano o non si accettano; che per non accettarle occorrono motivi di irresistibile resistenza morale; che a tanto non arrivano le riserve secondo me possibili sul “metodo” della lotta antisemita».

Qui misuriamo l’effetto corruttore dei sistemi totalitari, la narcosi della coscienza che provocano negli individui in nome dell’obbedienza assoluta a capi ritenuti infallibili. In un clima del genere coloro che non sono affetti dal fanatismo ideologico finiscono tuttavia per abbandonarsi alla passività, per scivolare nel male denunciato con gran forza da Liliana Segre in tutti i suoi interventi pubblici: l’indifferenza.

Quanti, anche all’interno del regime, pensavano che le leggi razziali fossero un sopruso, ma si rimisero alla volontà del Duce? E quanti le accettarono, anche sulla base di antichi pregiudizi? Del resto la Chiesa cattolica presentava gli ebrei come «perfidi», per non parlare dell’accusa assurda, ma ripetuta tanto a lungo, di «deicidio» per la crocifissione di Gesù.

Si slittò così gradualmente sul piano inclinato che durante l’occupazione nazista portò a trasformare gli ebrei italiani, come scrive Ferruccio de Bortoli nella prefazione del volume, «da persone in oggetti di scarto». Esseri privati della loro individualità, da eliminare come insetti nocivi o, se abili al lavoro, da sfruttare fino allo sfinimento come bestie da soma. Un intero popolo da estirpare sistematicamente, con procedure mutuate dall’industria moderna.

La logica del lager era profondamente disumanizzante. Metteva i deportati gli uni contro gli altri, li induceva a chiudersi nella loro disperazione, distruggeva ogni forma di solidarietà. «Noi non volevamo sentire, non volevamo sapere. Giorno dopo giorno diventavamo più egoiste», racconta Liliana Segre di sé stessa e delle sue compagne di sventura.

Eppure la senatrice a vita, che aveva 13 anni quando fu deportata il 30 gennaio 1944, riuscì a conservare la voglia di vivere e il senso di umanità fino all’ultimo. Anche durante la «marcia della morte», quando venne condotta via da Auschwitz mentre i sovietici si avvicinavano, seppe rinunciare alla tentazione della vendetta, all’impulso di rendere a uno dei suoi aguzzini quello che aveva subito. «Il capo dell’ultimo lager in cui ero stata — racconta Liliana Segre nella sua testimonianza — gettò a terra la pistola. Avrei potuto raccoglierla e ucciderlo. Ma non lo feci. E da quel momento sono diventata quella donna libera e quella donna di pace che sono anche adesso».

Scegliere la vita e la pace, tuttavia, non significa perdonare. Ci sono orrori sui quali non si può passare un colpo di spugna, che continuano a pesare su tutti coloro che si macchiarono di complicità con il genocidio degli ebrei.

Furono i nazisti ad attuare le deportazioni e lo sterminio, ma quel crimine spaventoso — non bisogna dimenticarlo — grava anche su una parte del nostro Paese. La Repubblica sociale fascista fondata da Mussolini, riportato in auge dai tedeschi dopo l’armistizio dell’Italia con gli Alleati e la tragedia dell’8 settembre 1943, dichiarò subito che gli ebrei erano da considerare stranieri e nemici, poi ne decretò l’internamento, premessa della successiva destinazione verso i lager della morte. Alla Shoah parteciparono anche nostri connazionali, sul piano politico e su quello più direttamente operativo. Non siamo un Paese solo di Giusti, anche se ci fu chi rischiò la vita per salvare gli ebrei.

Liliana Segre, nelle pagine del libro edito dal «Corriere della Sera», ci ricorda che cosa avvenne, a quale livello di abiezione possano giungere gli esseri umani quando bollano come nemici i propri simili non per quello che hanno fatto, ma per l’etnia, la religione, il colore della pelle, le idee. Al tempo stesso invita a non coltivare l’odio, pur senza mai rinunciare alla ricerca della giustizia e al dovere della memoria. Una lezione purtroppo attuale anche oggi. Perché la storia non si ripete mai allo stesso modo, ma ripropone spesso, davvero troppo spesso, orrori analoghi.

Il volume in edicola

Per trent’anni Liliana Segre, superstite di Auschwitz, ha testimoniato la sua esperienza dell’orrore, cercando le parole per dire l’indicibile. Lo scorso 10 settembre ha compiuto 90 anni. Con l’avanzare dell’età, la sofferenza e la fatica di rivivere ogni volta l’abisso della Shoah sono diventate troppo forti. Così ha deciso di interrompere l’attività di testimone. Ha voluto però condividere un’ultima volta la sua memoria, il 9 ottobre a Rondine Cittadella della Pace, nell’Aretino, associazione in cui convivono giovani da Paesi in conflitto. In una grande tensostruttura, organizzata in base alle regole anti-Covid, la senatrice a vita ha parlato ai ragazzi di Rondine, a una rappresentanza di scuole presenti e a tutte quelle collegate in streaming dall’Italia e dall’estero, in un ideale passaggio di testimone agli amati ragazzi. Ha raccontato ciò che è stato, gli esseri umani ridotti a «pezzi» e mandati alle camere a gas con un cenno del capo. Ma nel toccante discorso ha trasmesso anche un messaggio di speranza e di incoraggiamento alle nuove generazioni. La testimone ha ricordato il momento in cui, durante la «marcia della morte», avrebbe potuto uccidere il suo aguzzino, ma decise di non farlo. E scelse la vita, divenendo una donna libera e di pace. Adesso il discorso di Liliana Segre è disponibile nel volume Ho scelto la vita. La mia ultima testimonianza pubblica sulla Shoah (prefazione di Ferruccio de Bortoli, a cura di Alessia Rastelli, pp. 64). Edito dal «Corriere della Sera», con il sostegno e la partecipazione di Esselunga, il libro sarà in edicola gratis venerdì 30 ottobre con il quotidiano. Nel volume, anche l’edizione integrale dell’intervista al «Corriere», in occasione dei novant’anni, rilasciata ad Alessia Rastelli. (Corriere della Sera)

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