La Sindrome di Down non è down
La discriminazione, spesso involontaria, è superabile
Io sono padre di Luca, bambino con sindrome di Down. Luca non è un bambino down, è un bambino con la sindrome di Down. Come sovente si sottolinea, le parole sono importanti e purtroppo in questo caso la discriminazione parte fin dal momento in cui le persone semplificano il lessico per indicare altri individui caratterizzati da tale condizione genetica. Come per tutte le sindromi, il caso ha voluto che la trisomia 21 venisse ancorata al nome del medico che ne descrisse per primo le caratteristiche nel 1862, John Langdon Down.
Il fatto che però a tale condizione si associno debolezze e fragilità diverse, ha lasciato quasi intendere che “down”’ fosse viceversa un aggettivo appropriato. E nonostante tale inesattezza sia evidente e grave, nel linguaggio comune ma anche nei contributi che appaiono su testate giornalistiche a tiratura nazionale, tale errore sembra – ahimé – insanabile. Basta fare una semplice ricerca dell’espressione “bambini down” in Google per rendersene conto. vv Sicuramente questa evidenza ha un sapore beffardo e in qualche modo apre la strada alla discriminazione che queste persone e le loro famiglie subiscono.
In questo caso è evidente che l’uso improprio delle parole conduce, infatti, a una sintesi che sembra confortevole e soddisfacente per tutti i ‘normali’ ma che viceversa è agli antipodi di quello che rappresenta effettivamente la sindrome di Down, vale a dire un’ampia eterogeneità di situazioni – sia belle sia brutte – tra tutte le persone che ne sono caratterizzate.
La sindrome di Down è quindi sfidante perché ci impone domande, risposte e scelte non convenzionali, in primo luogo nei momenti in cui è necessario osservare, interrogarsi, comprendere e quindi scegliere. E questa sfida non è solo per i genitori o per i familiari ma per tutti.
La sindrome di Down sfida il riduzionismo e la consonanza cognitiva di cui siamo ammalati noi ‘normali’, che preferiamo invece convinzioni e spazi della mente ristretti, familiari e rassicuranti. La discriminazione – o comunque l’esclusione – nasce anche dall’incapacità di riconoscere tutto questo. E a volte anche quei piccoli comportamenti, apparentemente senza importanza che ne derivano, possono però risultare discriminatori. Ad esempio, da genitori ci si abitua a non ricevere quasi mai inviti a feste di compleanno per tuo figlio con la sindrome di Down e ti ci abitui pur non capendone il motivo. Ed infatti quando un invito arriva ci si prepara all’evento con trasporto emotivo sostanziale per diversi giorni.
La discriminazione, spesso involontaria, delle persone è superabile seppur non in tempi brevi o comunque io mi auguro che lo sia. Quello che ritengo imperdonabile e profondamente disturbante è la discriminazione che arriva da chi avrebbe la finalità di superare ed eliminare tutte le discriminazioni, vale a dire le istituzioni dello Stato. In particolare, noi tutti sappiamo che il luogo in cui disuguaglianze e discriminazioni si superano dovrebbe essere la scuola. Come tutti i bimbi con disabilità il diritto allo studio di mio figlio Luca non è pienamente garantito ma condizionato, e potrebbe anche ridursi a un’eccezione, o meglio a una deroga. Molti ignorano, infatti, che il diritto allo studio per i bambini e gli adolescenti disabili non è un diritto pieno ma dipende dalla disponibilità economica dello stato.
La Legge Finanziaria del 2008, infatti, aveva stabilito per motivi di bilancio e di sostenibilità economica di non superare in classe un rapporto medio di un insegnante ogni due alunni diversamente abili. In pratica, con la finanziaria del 2008 è stato sancito un principio in base al quale i processi per la futura inclusione dei bambini diversamente abili fosse condizionata in ogni caso alle disponibilità finanziarie correnti. Negli anni seguenti la Corte costituzionale, la Corte di Cassazione e il Consiglio di Stato, vale a dire le più alte corti della Repubblica, avrebbero evidenziato a chiare lettere che questa norma mina il diritto allo studio di un numero elevato di bambini.
Per temperare il vulnus introdotto dalla finanziaria del 2008, vi è quindi la possibilità – ma non l’obbligo beninteso – di nominare insegnanti di sostegno ‘in deroga’ in particolare per i casi più gravi di disabilità. E quindi ogni anno gli uffici scolastici assegnano alle scuole un numero di insegnanti di sostegno che si definiscono ‘in deroga’ alla normativa tuttora ancorata a quel rapporto 1 a 2 che non risponde peraltro ad alcuna valutazione ulteriore rispetto a quella economica. Basta, tuttavia, leggere le testimonianze di molti genitori per realizzare che in numerosi casi, le ‘deroghe’ sono però decisamente inferiori ai fabbisogni e quindi il sostegno risulta nei fatti insufficiente.
In altre parole, il diritto allo studio dei bambini diversamente abili risulta non garantito. In un Paese come l’Italia dove si è arrivati a promuovere quasi con squilli di tromba, fanfare e banda musicale un ridicolo “bonus monopattino”, violando peraltro qualsivoglia regola di buon senso e di mercato, non abbiamo un’adeguata copertura finanziaria per garantire o comunque per segnalare l’impegno civile delle istituzioni a favore di individui più fragili. Questo è incredibilmente grave in un Paese democratico come l’Italia in cui in primo luogo andrebbero rispettate le sentenze delle più alte corti in particolare quando attengono a questioni riguardanti i diritti fondamentali.
Il parlamento, pur avendo introdotto modifiche nei processi di inclusione scolastica, invece persiste nella sua inazione rispetto a quel discriminatorio principio di fondo e non cancella l’idea soverchiante e disturbante secondo cui in ogni caso è necessario condizionare il sostegno alle disponibilità finanziarie correnti. In pratica, anche le modifiche apportate nei processi di inclusione rischiano di rimanere lettera morta senza un adeguato finanziamento. Questo è inaccettabile in una democrazia. Questo richiamo è essenziale poiché nella storia sappiamo purtroppo di come l’esperienza brutale del nazismo si fondasse sullo sterminio degli individui considerati inferiori e tra questi vi erano tra gli altri anche le persone con sindrome di Down.
Da quando è nato Luca, il 25 aprile, la data in cui commemoriamo la liberazione dal nazifascismo si è arricchita per me di un ulteriore e più pregnante significato. La condizione di mio figlio Luca ha quindi modificato non solo convinzioni di natura intima, ma anche attitudini e convincimenti riferibili al mio essere cittadino. Le giornate per ricordare l'esistenza di persone con la sindrome di Down devono servire a questo: ricordare che noi ‘normali’ siamo in ritardo nel costruire un mondo in cui la ricchezza e la complessità dei diversi come mio figlio Luca abbiano la piena cittadinanza.
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