Le visite dei pontefici
Il Covid ci dimostra perché l’ecologia integrale è una necessità
Ci voleva il Covid 19, potrebbe dire un filosofo realista tentato dal cinismo (qui inteso, va da sé, nella forma nobile elaborata dal pensiero greco antico). Perché è indubbiamente vero che l’ultima pandemia ha costituito una sorta di rivelazione: uno svelamento di ciò che è nascosto, la cupa epifania del rimosso.
È stato il Covid 19, infatti, a rappresentare una sorta di corto circuito di tutte le tensioni e le contraddizioni, le sotterranee implosioni e le latenti eruzioni che lacerano, visibili o invisibili, il pianeta. Di conseguenza, appare del tutto ragionevole che il volume Niente di questo mondo ci risulta indifferente, redatto dall’Associazione Laudato si’, curato da Daniela Padoan e pubblicato da Interno4 Edizioni, prenda le mosse proprio dal tempo del coronavirus. Nella nota introduttiva, Padoan scrive che l’espansione del Covid 19, secondo i virologi, «non è un’improvvisa e inaspettata catastrofe», bensì «l’ultimo anello di una concatenazione di eventi epidemici che si sono verificati in poco più di un decennio tra il 2003 e il 2014, in varie parti del pianeta: Sars, influenza aviaria, Mers ed Ebola». E ricorda che, nel settembre 2019, uno studio commissionato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità lanciava un drammatico allarme sul pericolo imminente: «una pandemia in rapido movimento, altamente letale, dovuta a un agente patogeno respiratorio in grado di uccidere da 50 a 80 milioni di persone e di spazzar via quasi il 5 per cento dell’economia mondiale».
Ancora: «I focolai d’infezione colpiscono molto più duramente le comunità a basso reddito […].
Gli amplificatori delle malattie, tra cui la crescita della popolazione e le conseguenti tensioni sull’ambiente, il cambiamento climatico, la densa urbanizzazione, l’aumento esponenziale dei viaggi internazionali e delle migrazioni, sia forzate che volontarie, aumentano il rischio per tutti, ovunque». Come si vede, nulla che già non si sapesse, ma che ora evidenzia tutta la sua tragica esplosività. La diagnosi è precisamente quella che uno studio dell’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti, nel febbraio del 2020, così sintetizzava: la crisi pandemica «deriva da un drastico aumento dell’appropriazione delle risorse naturali da parte dell’uomo [...], dai cambiamenti alimentari connessi a un maggiore consumo di prodotti animali e da un maggior fabbisogno di energia».
Da qui, non solo la necessità, ma diremmo l’urgenza, di un libro come questo. Partendo dal concetto di ecologia integrale, il paradigma evocato da Papa Francesco nell’enciclica del 2015 in cui “tutto è in relazione”, “tutto è collegato, “tutto è connesso”, il testo propone un’articolazione complessa di alcuni temi cardinali che riguardano la Terra e i suoi molti malanni. La pubblicazione di Niente di questo mondo ci risulta indifferente coincide con uno scenario pandemico che costringe gli autori a chiedersi quale sia il valore di «un libro nello sconvolgimento delle esistenze, nella perdita dei punti fermi, nell’incertezza del futuro ».
Nei diciotto capitoli viene tracciato un percorso che — con realismo e pragmatismo — si pone l’obiettivo di sanare la frattura tra ciò che è umano e ciò che non lo è, criticando la tendenza antropocentrica a oggettivizzare la natura e a soggettivizzare la ragione umana. L’esaltazione del ruolo dell’uomo nell’universo, con il suo intelletto e la sua razionalità, dalle origini delle civilità all’Antropocene, ha prodotto effetti di lungo periodo e conseguenze destabilizzanti sul piano fisico, chimico e biologico. Ma anche etico. Gli esiti sono evidenti: diseguaglianze, povertà, catastrofi dette “naturali”. Essi vengono ben descritti nelle varie tematiche affrontate: dalla depredazione ambientale alle migrazioni, dalla finanza all’ambiente, dal lavoro alla salute. In ognuno di questi campi, per chi lo voglia, ci si può impegnare con quella predisposizione che il libro costantemente suggerisce: una intensa attenzione alle cose, una dura concretezza. Tutt’altro punto di vista, è quello dello scienziato centenario James Lovelock, nel suo ultimo libro Novacene. L’età dell’iperintelligenza (Bollati Boringhieri, 2020). L’autore invita ad abbandonare «l’idea, gravata da interpretazioni politiche e psicologiche, secondo cui l’Antropocene è un grave crimine commesso contro la natura». Lovelock immagina la “fine della natura” e l’inizio di una nuova era dominata dalla “superintelligenza artificiale”: la Novacene. «Tuttavia non dovremo preoccuparci — sostiene il chimico britannico — perché l’aspetto rivoluzionario in questo momento è il fatto che ad essere in grado di comprendere nel futuro non saranno gli umani ma i cyborg».
Se per Lovelock si tratta di un punto di non ritorno, gli autori di Niente di questo mondo ci risulta indifferente rivolgono all’esistente uno sguardo più fiducioso e, come dire, positivista, redigendo un vero e proprio documento programmatico utile ad affrontare empiricamente il problema dei cambiamenti climatici. Lo fanno indicando la necessità di instaurare una solidarietà sociale, politica e istituzionale che sia in grado di concepire un rapporto tra uomo e natura paritario, eguale, integrale. Integrale come la cultura ecologica illustrata nel libro; un pensiero che diventa possibilità di mutare radicalmente l’etica dei consumi, gli stili di vita, i modelli di sviluppo. Non una scelta obbligata, di più: una via ineludibile. Tutto ciò vi sembra una utopia? Magari seducente, comunque velleitaria e astratta? Ma perché non è ancora più utopistico — ovvero, irrazionale fino alla follia — procedere come stiamo procedendo?
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