La buona politica è a favore della pace
Fino a qualche anno fa la parola “pace”, alle nostre latitudini, sembrava una conquista messa in archivio, uno status quo acquisito, o al limite il desiderio - vuoto di contenuto - buono per riempire la bocca di aspiranti Miss Italia. “Sogno la pace nel mondo” nei concorsi di bellezza era diventato un luogo comune degno de “il nuoto è lo sport più completo” e “con l'euro è tutto più caro”.
Oggi, però, chi conosce la storia e osserva con attenzione le cose del mondo sa che la geo-politica è in una fase di fibrillazione costante e che il Vecchio Mondo, fra crisi economiche e sociali, fra minacce terroristiche e rivolte interne, fra emergenza immigrazione e fascismi di ritorno è una polveriera sul punto di esplodere. In questa fase storica, purtroppo, la pace non è più l'alibi dietro il quale una civiltà sedicente evoluta può voltarsi dall'altra parte fingendo di non vedere che cosa stiamo diventando.
Oggi la pace non è più il lusso che gli abitanti di Paesi reduci da decenni di benessere possono concedersi a cuor leggero continuando a costruire scale di valori in cui un computer di ultima generazione conta più della vita di un uomo. Soprattutto se, attraverso quel computer, si possono sputare sentenze su persone disperate e prove di speranza, senza comprendere che il nostro futuro, oggi più che mai, dipende dal modo in cui ci interessiamo del futuro degli altri.
Per questi, e molti altri validi, motivi, la Giornata Mondiale della Pace, prevista per il prossimo 1 Gennaio, quest'anno incarna un valore ancora più profondo e, forse, più immediatamente pratico. Perché in un pianeta da sempre lacerato da guerre, ora i temi legati alla responsabilità del dialogo e alla tenuta pacifica della società riguardano anche noi, ex privilegiati uomini occidentali da vicino, come non accadeva da anni. Se molti di noi hanno faticato a empatizzare con conflitti lontani, diventa adesso impossibile nasconder la testa sotto la sabbia, mentre il tessuto socio-economico che viviamo si sgretola di fronte ai nostri occhi.
Non è un caso che Papa Francesco, parlando dell'appuntamento del 1 gennaio, abbia posto l'accento proprio sulla politica, ovvero sulla necessità di avere governanti responsabili e capaci di dialogare, unico possibile viatico per ridare un senso a un impegno costante verso il futuro. “La buona politica è al servizio della pace”, è la chiave del messaggio pontificio. Che si articola ben oltre un mero invito a cambiare approccio. Quello del Papa è un appello accorato che chiama in causa i politici e li richiama a un approccio più responsabile.
“La responsabilità politica appartiene ad ogni cittadino e in particolare a chi ha ricevuto il mandato di proteggere e governare - sottolinea una nota di commento della Santa Sede - Questa missione consiste nel salvaguardare il diritto e nell’incoraggiare il dialogo tra gli attori della società, tra le generazioni e tra le culture. Non c’è pace senza fiducia reciproca. E la fiducia ha come prima condizione il rispetto della parola data”. Dialogo fra attori e culture. Questa è la strada. Una strada che mal si concilia con l'approccio sempre più violento nei modi, nella comunicazione e nei toni degli attori principali del palcoscenico politologico.
A partire dall'invito esplicito alla delazione che il Movimento Cinque Stelle ha fatto poche settimane fa, sulla sua piattaforma, chiedendo ai propri militanti di denunciare pubblicamente quanti non osservano le regole del Movimento stesso. Un'azione preoccupante che ricorda i regimi dell'est: spiare e fare la spia come se le regole autarchiche di un movimento politico valessero più della libertà di pensiero e d'espressione dei propri iscritti.
Un andazzo inquietante più che preoccupante, in cui, chi governa, con la scusa della democrazia dal basso, sembra voler scaricare le proprie responsabilità sulla massa, sottraendosi ai principi della politica responsabile fatta di proposte di dialogo, e, in casi estremi, di scelte coraggiose seppure impopolari. Ma questa china, su cui hanno avuto e stanno avendo un'influenza notevole le nuove tecnologie (utilizzate sempre più spesso in modo distorto anziché in modo virtuoso), sta contaminando l'intero agone politico. Con la differenza che quando a usare in modo poco responsabile i nuovi strumenti di comunicazione è chi governa il tutto si colora di tinte fosche e preoccupanti.
Emblematici, in questo senso, due gravi episodi che hanno visto protagonista il Ministro dell'Interno, nonché vice-premier, Matteo Salvini. Il primo risale al Novembre scorso, quando il leader leghista ha deciso di pubblicare sui propri profili social la foto di tre ragazze minorenni, a volto scoperto e pertanto perfettamente riconoscibili, immortalate durante il “No Salvini Day”. Foto che accompagnata dal commento “Poverette. E sorridono pure…”.
Un gesto tanto irresponsabile quanto pericoloso. Un incitamento, più o meno esplicito e più o meno consapevole, alla violenza. Pubblicare in rete la foto di tre giovanissime denigrandole, equivale a fomentare i propri seguaci. E in effetti i follower di Salvini non si sono fatti pregare. Le ragazze sono state riconosciute e sommerse di insulti e attacchi verbali di ogni sorta.
Ma l’azione, già improvvida di per sé, diventa inaccettabile quando viene perpetrata da un rappresentante delle istituzioni che decide di mettere alla gogna tre minori che hanno come unica “gravissima” colpa quella di essersi schierate contro di lui nel corso di una manifestazione pubblica.
Ma se, con un fantasioso sforzo d’indulgenza, si poteva derubricare il gesto a goliardata irresponsabile e colposa, ciò che è davvero imperdonabile è la successiva campagna, voluta e consapevole, costruita da Salvini intorno alla manifestazione “Prima gli Italiani” organizzata dalla Lega in piazza del Popolo a Roma, l'8 dicembre scorso. In questa occasione il Ministro ha iniziato a pubblicare sui propri canali social una serie di fotografie di personaggi noti, da Fiorella Mannoia a Roberto Saviano, da Fabio Fazio ad Asia Argento, accompagnate dalla didascalia “LUI NON CI SARÀ”.
Un'iniziativa dal retrogusto sgradevole, che per certi aspetti ha riportato alla memoria l'imprinting delle liste di proscrizione. E sono sembrate davvero fragili le giustificazioni di Salvini che ha goffamente tentato di definire “ironica” la campagna in questione, fingendo di non capire quanto sia pericoloso il messaggio che si fa passare se si additano pubblicamente i propri nemici. Al tempo dei social l'uso che i leader fanno delle parole e dello strumento dovrebbe essere doppiamente accorto e responsabile.
Mentre in certe azioni riecheggiano forme velate di bullismo squadrista (il fatto che siano “soltanto” virtuali, o meglio immateriale, non è un'attenuante perché tutto ciò che consideriamo virtuale in realtà ha conseguenze reali), ma soprattutto si afferma un'idea estremamente pericolosa, che è quella di mettere all'indice chi ha un pensiero diverso e critico nei confronti del potere.
E allora, riallacciandoci all'appello del Pontefice, è buona politica quella che incoraggia denunciare, additare e mettere alla gogna chi ha idee diverse da quelle di chi governa? È buona politica usare i social network per fomentare l'odio ed esasperare gli animi in un periodo già teso, in cui la tenuta sociale è sempre più instabile? Perché se la “responsabilità politica appartiene a ogni cittadino e in particolare a chi ha ricevuto il mandato di proteggere e governare, incoraggiando al dialogo gli attori della società”, ogni azione divisiva operata da chi ha cariche di governo, e pertanto si trova a gestire il potere, è al tempo stesso lacerante e preoccupante.
Oggi, al di là di idee e ideologie varie, che possono e devono rimanere distanti, al netto di divergenze anche forti che sono da sempre il sale del dibattito politico, abbiamo bisogno di una politica diversa e migliore, incarnata da persone responsabili. Un paese i cui politici istigano all'odio e mettono gli uni contro gli altri i propri cittadini è un paese destinato al fallimento. Viviamo una fase storica estremamente incerta.
Lasciare che a scandirla siano politici che preferiscono dividere piuttosto che unire è un lusso che non ci possiamo permettere. “Divide et impera” (alimenta la rivalità e la discordia se vuoi dominare un popolo) fu un celebre motto politico attribuito a Filippo il Macedone e poi recuperato per definire l'approccio al potere di Luigi XI di Francia e dell'Impero austriaco. Ma il tempo dei regni e degli imperi, non ce ne vogliano i restauratori, è finito da un pezzo. In democrazia il politico non domina, guida. E una buona guida deve essere, prima di tutto, responsabile.
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