L'infinito non è uguale per tutti
Nella nostra cultura il finito è il punto di partenza, e l' infinito è dove si arriva negandolo
Il termine «infinito» rivela fin dalla sua etimologia di essere l' ovvio contrario di «finito». Il che significa che nella nostra cultura il finito è il punto di partenza, e l' infinito è dove si arriva negandolo, con tutto ciò che ne consegue. Non a caso Aristotele scriveva nella Fisica che l' infinito non c' è, neppure dove sembrerebbe ovvio che ci fosse: «I matematici non sentono il bisogno dell' infinito, e non se ne servono nelle loro dimostrazioni. Usano soltanto l' accrescimento indefinito dei numeri, e la suddivisione indefinita dei segmenti». Non tutte le culture la pensano allo stesso modo, però. Per gli Indiani, ad esempio, succede esattamente il contrario: in sanscrito il punto di partenza è l' infinito (nitya), ed è il finito a essere la sua negazione (anitya). Per questo il poeta Rabindranath Tagore, premio Nobel della letteratura nel 1913, scriveva nel suo libro Sadhana: «La distanza tra due punti, per quanto vicini, è infinitamente divisibile, e dunque infinita: noi attraversiamo l' infinito a ogni passo, incontriamo l' eterno in ogni secondo. Quindi il finito non c' è: è solo maya, un' illusione. Il reale è l' infinito».
Al contrario, oggi la fisica ci insegna che tutto ciò che esiste è finito: compreso l' universo stesso, sia in grande sia in piccolo. Per la scienza l' infinito è dunque un concetto che pensiamo nella nostra mente, ma non un oggetto che incontriamo nel nostro mondo. Il che non impedisce ovviamente che ne parliamo. Anche se, benché tutti usiamo la stessa parola, ciascuno di noi intende una cosa diversa, creando una gran confusione. Ad esempio, la superficie della Terra è finita o infinita? Noi oggi diremmo che è sicuramente finita, specificandone anche le misure: circa 500 milioni di chilometri quadrati, corrispondenti a un raggio medio di circa 6370 chilometri. I Greci avrebbero invece detto che la superficie della Terra è infinita, perché il loro termine ápeiron significava in realtà «illimitato», e in effetti sulla superficie di una sfera non ci sono limiti o confini, almeno in astratto (e nemmeno sulla Terra, in concreto, almeno per chi possiede un potente mezzo anfibio).
Per cercare di far chiarezza nella confusione di significati che si nascondono dietro una stessa parola, nel mio recente libro Ritratti dell' infinito (Rizzoli) ho proposto di isolarne dodici aspetti diversi, benché in relazione tra loro, e nella lezione per Vita Nova ne illustrerò ciascuno tramite due immagini: nel caso dell' illimitato, al quale abbiamo appena accennato, mostrando una foto della radiazione cosmica di fondo dell' universo e una rappresentazione del Paradiso dantesco, i cui illimitati confini sono rispettivamente l' orizzonte cosmico e Dio stesso. Più modestamente, il deserto e il cielo stellato suggeriscono l' idea di «immenso», che è quella che più spesso intendiamo quando parliamo di infinito nel linguaggio comune. Nessuno infatti, quando dice alla persona amata che l' ama di un amore infinito, o che vorrebbe darle o ricevere infiniti baci, lo dice in senso letterale.
Per quanto riguarda la sabbia, già Archimede si premurò di calcolare quanti granelli avrebbero potuto riempire l' universo, e trovò un numero grande, ma neppure troppo, e sicuramente non infinito: per la precisione, 10 alla 63, cioè un uno seguito da 63 zeri. La torre di Babele e il labirinto della cattedrale di Chartres introducono invece il concetto di «inesauribile», anche se da questo punto di vista i labirinti antichi erano in realtà deludenti, perché mancavano di percorsi circolari che permettessero di tornare in punti in cui si è già passati, senza dover tornare indietro. Soltanto nei labirinti moderni, a partire da quello della reggia di Versailles, c' è veramente la possibilità di perdersi e continuare a girare «all' infinito», inteso appunto nel senso di compiere un percorso che non si esaurisce mai.
L' uso che dell' infinito fanno i letterati e gli artisti è invece puramente metaforico, come ci hanno insegnato Leopardi e Calvino. Il primo diceva nello Zibaldone che «l' anima, non vedendo i confini, riceve l' impressione di una specie di infinità, e confonde l' indefinito con l' infinito». E il secondo ripeteva nelle Lezioni americane che «la mente umana non riesce a concepire l' infinito, e non le resta che accontentarsi dell' indefinito». E l' indefinito è la cosa più facile da raffigurare, ad esempio con un quadro preimpressionista di Turner, o uno astrattista di Pollock.
Ai quattro concetti già citati (illimitato, immenso, inesauribile e indefinito) ne ho aggiunti altri otto, nel libro e nella lezione (interminabile, incommensurabile, irraggiungibile, incomprensibile, transfinito, trascendente, trascendentale e ineffabile). Dovrei farlo anche qui, volendo finire la lista, e invece mi accorgo che è finito il mio spazio. Ma va bene così, perché non finendo la lista la lascio appunto interminata, e dunque letteralmente infinita, come ben si addice all' argomento che ho abbozzato, che non si può esaurire né in un articolo, né in una lezione, né in un libro. (La Stampa)
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