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Intervista a Ruffini: "Raccontiamo storie illuminate dal Bene"

Enzo Fortunato, Direttore Rivista San Francesco Freepik
Pubblicato il 24-05-2020

Oggi è la Giornata Mondiale della comunicazione sociale, intitolata "Perché tu possa raccontare e fissare nella memoria". Padre Enzo interroga Paolo Ruffini, Prefetto per la comunicazione della Santa Sede: "Raccontiamo storie illuminate dal Bene. Solo la pazienza ci insegna a conoscere"
 

Per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali la Santa Sede ha scelto un tema legato alle persone e alle loro storie. Perché? 

 
Siamo le storie che raccontiamo e le storie che ascoltiamo. Sappiamo benissimo quanto la comunicazione contribuisca a tessere l'identità di quello che siamo; se ci nutriamo di storie false o di storie cattive, in qualche modo restituiamo questa falsità, diventiamo strumenti, più o meno consapevolmente, della diffusione di rancori e cattiverie. 
 
Se invece riusciamo a vedere, anche nelle storie più complesse, quel soffio di bene che c'è sempre, diventiamo strumenti di Dio e dello Spirito Santo, costruendo un mondo migliore di quello che abbiamo trovato. Questo è il compito della comunicazione. Ed è così che noi sappiamo davvero quanto la comunicazione riesca a unire e dividere, a costruire condivisione del bene o a diffondere il male, cercando capri espiatori a buon mercato. Oppure riesca a prendersi la pazienza della costruzione della verità e della condivisione. Il papa ci chiede oggi di fissare nella memoria e raccontare. E cioè di narrare storie che siano illuminate dal bene, di fare esperienza, prendersi la pazienza di vivere le cose e di conoscerle. 
 
Pensiamo a ciò che condividiamo con i mezzi di comunicazione digitali, cose per cui non abbiamo avuto la pazienza di capire se fossero vere o false. Fare esperienza vuol dire prendersi la pazienza dell'incontro con le persone, guardarle negli occhi, ascoltarle e lasciare lo spazio per ascoltarne l'esperienza. E poi, attraverso la nostra testimonianza, contribuire che ogni storia possa essere riscattata verso una conclusione migliore. Se poi guardiamo la comunicazione come fatto professionale - e quindi al lavoro dei giornalisti e dei comunicatori - io penso che non ci sia peggior comunicatore di chi pensa di sapere già tutto senza fare l'esperienza della ricerca della verità, della paziente ricerca della spiegazione delle cose e del loro cambiamento. 

In questo periodo, durante il covid, ma soprattutto prima, si è molto parlato di fake-news, bad news, o small news, senza però tenere presenti le persone. Qual è il suo suggerimento per evitare che le persone siano fagocitate da notizie non belle, o false, e quindi da notizie che distruggono una società e la stessa persona? 
 
Il tema non è: "notizia bella o non bella". Il mondo, come sappiamo dai Vangeli, contiene grano e zizzania, bene e male. Noi stessi siamo consapevoli di quanto siamo imperfetti. Il tema è come le cose vengono raccontate. Il controllo di questo racconto non è soltanto una cosa da giornalisti. Ma è una cosa di tutti, sta a tutti noi. Oggi più che mai, la comunicazione va da persona a persona, tutto quello che noi condividiamo può essere vero o falso, il controllo, la verifica tocca a noi. Altrimenti cadiamo in quello che Papa Francesco chiama "il chiacchiericcio". Ma non abbiamo nemmeno verificato. Abbiamo soltanto riportato una voce. 
 
Ho lavorato anche in televisione, e mi sono trovato più volte a contestare i teorici del "non inseguiamo lo share". In inglese "to share" vuol dire condividere. Quindi, certo, non inseguiamo la condivisione di qualsiasi cosa, ma condividere le cose è bello. Quando condividiamo la notizia non verificata non abbiamo fatto una cosa buona, quando condividiamo la notizia falsa facciamo ancora peggio, così come quando condividiamo la notizia in cui si trova subito il capro espiatorio che ci para la coscienza. Ecco di chi è la colpa - gridiamo. E invece magari è una colpa condivisa da tanti. Ecco, tutto questo fa buona o cattiva comunicazione. Una buona comunicazione crea una relazione che a sua volta crea un processo virtuoso.
 
Lei parla di questo chiacchiericcio che inquina e smembra la comunicazione. Ha anche scritto che "una comunicazione senza senso finisce per divorare se stessa. Che cosa significa?" 
 
Significa che uno può accontentarsi di essere connesso, di parlare e non ascoltare e pensare che questa sia comunicazione. La rete, intesa come rete di persone, può imprigionare in un circolo vizioso, come una tela di ragno, oppure può essere una rete di relazioni. Io penso che noi cristiani dobbiamo costruire, attraverso la comunicazione, una rete che contenga il surplus di amore e di bene a cui siamo chiamati, che è poi la ragione stessa della nostra esistenza. Questa relazione è tesa a costruire e non a imprigionare. Se mi accontento di una connessione, di parlare e non ascoltare, non sto comunicando, non sto costruendo.
Penso che dobbiamo essere sempre consapevoli che siamo servi nobili, strumenti di trasmissione di qualcosa che ci trascende. Se pensassimo di essere noi i protagonisti, credo che commetteremmo lo stesso errore di chi inquina la comunicazione.

Qual è il gesto che più le è rimasto impresso nella comunicazione di Papa Francesco? 
 
Il modo in cui ci ha accompagnato durante tutta la quarantena: tutte le mattine milioni di persone, in Italia e in tutto il mondo, hanno seguito Francesco. Noi abbiamo ricevuto messaggi grati da Cina, Vietnam, Sud e Nord America da persone che non andavano più in chiesa e si sono riavvicinate alla fede, da non credenti che hanno scoperto non dico ancora la fede, ma si sono sentiti interrogati dalle parole del Vangelo che il papa commentava durante il lockdown. Questo è il più sobrio e il più mite dei gesti, nella sua purezza nella sua semplicità. Le messe a Santa Marta a cui hanno assistito tutti erano così spoglie, così semplici, così essenziali da comunicare tantissimo, proprio perché strumento di qualcosa di trascendente. 
 
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