Le visite dei pontefici

Francesco Vignarca, Rete Pace e Disarmo: «Le armi non ci proteggeranno»
Il 13 aprile 2025, Domenica della Palme, l’aviazione israeliana bombarda, rendendolo al suolo, l’ospedale al Ahli, noto anche come l’ospedale Battista di Gaza: era l’unico ospedale del territorio che funzionava ancora a pieno regime, e ospitava centinaia di pazienti, feriti e personale medico. Lo stesso giorno a Samy in Ucraina, un attacco missilistico provoca 34 vittime, di cui 7 bambini. Si trattava famiglie che si trovavano nel centro della città in una domenica intensa di preparazione all’inizio delle festività pasquali.
Due eventi atroci in una giornata “simbolo”, che il giornalista Nello Scavo definisce “Domenica delle Salme” (mutuando il titolo di una canzone di Fabrizio De Andrè) e che ci offrono lo stimolo per una riflessione con Francesco Vignarca, Coordinatore delle Campagne nella Rete Italiana Pace e Disarmo, sul piano ReArm Europe, “addolcito” poi dal nuovo nome di Readiness 2030, annunciato il 4 marzo 2025 dalla Presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen. Vignarca ci fa notare che un'alternativa alle armi esiste: cooperazione e diplomazia.
Piano europeo di riarmo. Cosa prevede? Quali potrebbero essere, secondo la tua esperienza e quella di Rete Pace e Disarmo, le conseguenze di un riarmo degli Stati? Avergli cambiato nome ha davvero modificato la sostanza o è semplicemente un modo per lavarsi la coscienza?
La sostanza non cambia. Una premessa da fare: il riarmo era già in corso da tempo, sia a livello globale che europeo, e non è certo iniziato questo mese di marzo. Il piano di riarmo europeo, che ora si chiama Readiness 2030, è, secondo me, un passaggio grave, problematico e una rottura politica. L’Europa che afferma di doversi armare, di dover costruire la pace con la forza militare è un cambio di segno esplicito, infatti adesso tutto viene molto più dichiarato e rivendicato. Dal punto di vista pratico, non credo che il piano europeo di riarmo sarà davvero il protagonista di questa corsa agli armamenti. Si parla di 800 miliardi: di questi, 150 sarebbero prestiti attraverso un meccanismo chiamato SAFE, sul quale però gli Stati membri hanno già dei disaccordi. Gli altri 650 miliardi sono una proiezione: si immagina che tutti i Paesi europei sforino dell’1,5% senza subire sanzioni, perché verrebbe loro concessa un’esenzione dal Patto di Stabilità. Ma comunque i soldi devono trovarli, e c’è chi — come la Germania — li ha e potrà metterli sul piatto, e chi — come l’Italia — avrà molte più difficoltà a ottenere prestiti per sforare e raggiungere quell’1,5%. Nella pratica, saranno i singoli Paesi a riarmarsi, quindi si andrà verso un riarmo nazionale e non collettivo, che non servirà a costruire una vera difesa comune europea. A trarne vantaggio saranno soprattutto i Paesi che hanno le risorse economiche per farlo.
Un piano che rischia di evidenziare ancora di più le differenze invece di andare nella direzione dichiarata: una difesa comune.
Sì, esattamente. Perché sia che si voglia andare verso un esercito comune europeo, sia che si pensi a una difesa comune — cioè non un unico esercito, ma pezzi di eserciti nazionali messi insieme sotto il comando europeo — in qualunque di questi due scenari, il punto vero non è tecnico, non riguarda l’acquisto o il riarmo. È un nodo politico. Se davvero si vuole andare in quella direzione, che potrebbe permettere persino di risparmiare sulla spesa militare — perché significherebbe razionalizzare le forze armate, non avere 27 eserciti diversi, 27 stati maggiori, 27 linee logistiche — allora il cuore di tutto dovrebbe essere una decisione comune. Bisognerebbe partire dall’inizio, e cioè decidere insieme di cedere all’Unione Europea la sovranità militare e di difesa, che oggi non è prevista dai trattati. E ancor prima di questo, bisognerebbe cedere una parte della politica estera. Solo allora avrebbe senso parlare di esercito comune o di difesa comune europea. Invece, quello che sta succedendo è che si sbandiera questo piano di riarmo — che peraltro durerebbe solo quattro anni e che è comunque limitato — come se fosse un passo verso quella direzione, quando in realtà non è così. E questo non lo dico come ipotesi, lo dico perché è già successo. È successo con il Fondo europeo di difesa: ci avevano detto che, grazie a quei soldi comuni investiti in nuove armi europee, avremmo favorito la convergenza tra le industrie militari e quindi anche tra gli Stati. Ma non è successo. Le industrie non hanno convertito: ognuno fa i progetti che vuole, a volte anche in concorrenza. Come Rete Pace e Disarmo abbiamo anche un’altra critica: non solo lo stanno facendo male, ma stanno proprio andando nella direzione sbagliata. L’Europa potrebbe garantire maggiore sicurezza a se stessa e al mondo investendo nella cooperazione internazionale, nel negoziato, nella diplomazia, nel rafforzamento dei percorsi contro le disuguaglianze.
La difesa è sempre stata una prerogativa degli Stati, ma penso all’Ucraina, passata dalla difesa all’offensiva con armi fornite dall’Occidente, o a Gaza, dove a un attentato orrendo sono seguite decine di migliaia di morti civili. Come si definisce oggi il confine tra difesa e guerra vera e propria?
Esattamente gli esempi fatti dimostrano che c'è un errore di fondo, che è prima di tutto semantico: lo svuotamento di significato delle parole. Parlando di difesa o sicurezza, si fa coincidere tutto col militare. Ma non è così. È un tema su cui lavoriamo da tempo. Recentemente, anche grazie al nostro contributo, è stato rielaborato un nuovo paradigma di sicurezza condivisa, che riprende l’approccio degli anni ’70 di Olof Palme. L’idea è semplice: se i governi voglio davvero proteggere la vita, i diritti, i servizi delle persone, posso farlo molto meglio costruendo un sistema in cui tutti si sentano sicuri. Dove non si innesca l’escalation di minacce reciproche e dove i conflitti si risolvono in modo non armato. Il problema è che oggi si è banalizzata sia la parola “difesa” sia il concetto stesso di guerra, che viene raccontata come un film hollywoodiano: i buoni che colpiscono i cattivi, i missili contro i missili, tutto asettico. Ma la guerra non è mai così. È sempre un abominio e una distruzione totale. L’articolo 52 della Costituzione italiana sancisce che «la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino», senza specificare che deve essere “armata”. E infatti grazie alla lotta degli obiettori di coscienza abbiamo ottenuto il riconoscimento del diritto a non prendere le armi, pur avendo il dovere di difendere il Paese. Da qui la nostra proposta: rilanciare la campagna per la difesa civile non armata e nonviolenta, e per i corpi civili di pace, strumenti alternativi, reali, esistenti. Non è una teoria: nei primi mesi della guerra in Ucraina ci sono stati più di 230 casi documentati di difesa nonviolenta riuscita. L’Europa dovrebbe lavorare per costruire altre strade, convocare una grande conferenza di pace internazionale, aggiornare strumenti e logiche che sono ancora quelle di 50 anni fa, in un mondo che non esiste più. Chi subisce davvero la guerra non sono i decisori, ma le persone comuni.
Anche il tema della deterrenza non regge. Non è la dimostrazione che il modello della sicurezza basata sulle armi non funziona e crea solo escalation?
La deterrenza, intesa come sicurezza garantita dalle armi, è un’illusione. E lo dimostrano i fatti: la Russia, che ha il più grande arsenale nucleare al mondo, è stata attaccata. Israele, una delle società più militarizzate e protette al mondo, ha subito il 7 ottobre 2023 un attentato efferato che ha dimostrato quanto sia fragile quel tipo di sicurezza. Il modello della deterrenza militare non funziona perché genera il cosiddetto “paradosso della sicurezza”: più ti armi, più il tuo vicino si arma, più aumenta la percezione della minaccia reciproca e parte l’escalation. La storia ci dice che i cicli di riarmo quasi sempre si chiudono con un conflitto.
L'Europa ha rappresentato un modello di pace non perché sia riuscita a evitare ogni frattura, ma perché aveva scelto la via della cooperazione. Non sarebbe questa la strada giusta da proseguire e proporre anche al di fuori del continente?
Oggi, nessuno immaginerebbe mai che la Germania invada l’Italia o che la Francia lo faccia, ma questo non è un dato scontato. È il risultato di un lungo processo che ha avuto come cuore il disarmo e la cooperazione, non il riarmo. Non è la forza dell’esercito a farti sentire sicuro, ma la consapevolezza che gli altri Paesi con cui confini hanno deciso di cooperare invece che combattere. Possiamo guardare alla figura di san Francesco, simbolo di pace e innovazione. Non è solo una figura religiosa, ma anche un esempio di come si possa andare oltre i conflitti: lui andò dal sultano, in un atto che all’epoca sembrava folle, ma che invece ha rivelato una lucidità straordinaria. In un momento in cui la guerra era l’unica soluzione per difendere l’onore di Cristo, san Francesco dimostrò che la vera difesa era di cercare la pace in un modo inedito. L’Europa, seguendo l’esempio di figure come san Francesco, dovrebbe cercare di portare avanti un approccio che promuova la cooperazione e la pace. Se il denaro viene destinato all'acquisto di armi, non ci saranno risorse per il welfare. La gente comune paga il prezzo di queste scelte. Eppure, si cerca di farci credere che non sia giusto fare il confronto tra il finanziamento di armi e quello per la scuola. Ma perché non pensare a una patrimoniale sulle ricchezze, utile per finanziare la pace, invece di tagliare sulla sanità e sull’istruzione? I dati dell'ISTAT parlano chiaro: il 23% della popolazione italiana è a rischio di povertà o grave insicurezza.
Qual è il tuo sogno e il sogno di Rete Pace e Disarmo?
Oltre san Francesco, abbiamo un altro profondo legame con l’Umbria: Aldo Capitini, secondo cui la nonviolenza, intesa come proposta politica, è il varco che l’umanità deve attraversare se non vuole dirigersi verso l'autodistruzione. Il mio sogno, e il sogno di Rete Pace e Disarmo, è che l'umanità comprenda che solo con un radicale cambiamento di prospettiva e con un impegno nella politica nonviolenta, potremo davvero costruire la pace. Superando le conflittualità naturali della vita e della storia possiamo realmente raggiungere una pace duratura, evitando la guerra, che è il crimine massimo.
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