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Giuseppe Cimarosa: la più grande libertà è quella di poter dire ciò che si pensa

Redazione
Pubblicato il 04-06-2019

Intervista a Giuseppe Cimarosa, il fascino della giustizia che abbatte quello dell'omertà

Giuseppe Cimarosa ricorda – nello spirito, nella tempra e nell’espressione del viso – Peppino Impastato. Così come l’attivista nonviolento di Cinisi, che si ribellò al potere del capomafia Gaetano Badalamentiquesto ragazzo di Castelvetrano ha deciso di alzare la voce contro Matteo Messina Denaro,  nella lista dei latitanti più ricercati e pericolosi al mondo, a cui lo lega uno stretto rapporto familiare.

La mamma di Giuseppe Cimarosa, infatti, è prima cugina di Messina Denaro. Dopo una serie di vicissitudini, Giuseppe ha imboccato e perseguito la via dell’arte e della bellezza, provando con ogni forza a offrire un’alternativa di riscatto al suo territorio. 

Giuseppe cominciamo dall’inizio, dall’infanzia. 

«Sono cresciuto in una famiglia che non mi mai spiegato cosa fosse la mafia, né ha voluto presentarmela in positivo. Di mafia a casa non se ne parlava. A scuola, però, ho scoperto che Matteo Messina Denaro era mio zio, primo cugino di mia madre. Non erano i professori a parlarne ma i miei compagni, a tratti affascinati dal suo alone di mistero, come fosse un personaggio mitologico. Chiunque avrebbe fatto carte false per ostentare anche soltanto un mezzo rapporto di parentela con lui; io, invece, non riuscivo a trovarne vanto. Una sera  vidi il film “I cento passi” di Marco Tullio Giordana, e scoprendo la storia mi Peppino Impastato ho desiderato avere quel coraggio». 

 

C’è tanto in te di quel ragazzo che sfidò Tano Badalamenti. 

«Peppino litigava con suo padre perché non accettava la sua vicinanza a Badalamenti. Anche io ho trovato la forza di reagire perché sapevo che quel nostro legame familiare sarebbe stato un pericolo per mio padre». 

Per tuo padre? 

«Sì. Mio padre era un imprenditore che è stato trascinato dentro i meccanismi oscuri della mafia. E' un po’ come il servizio militare, se ti arriva la chiamata devi accettare. Lo attaccavo ma non mi contrastava, perché sapeva che avevo ragione. Anzi, più di una volta si è mostrato felice e orgoglioso della mia indignazione perché in cuor suo aveva già capito che non sarei mai stato un uomo al servizio dei Messina Denaro». 

 

Ci racconti la vicenda di tuo padre? 

«Papà è stato arrestato per associazione mafiosa. All’epoca gestiva una cava di sabbia. L’accusa poi decadde, e lui scontò soltanto una condanna di danneggiamento. Restò in galera senza fare i nomi, perché era l’unico modo per salvare la famiglia. “Chi parla” viene considerato un pentito, un infame, punibile con una vendetta che potrebbe colpire i suoi affetti più cari. Quel suo silenzio fu apprezzato e – agli occhi dei mafiosi – mio padre apparse come uno affidabile. Avevo quindici anni, e fu un trauma indescrivibile. Quando uscì dal carcere, quel figlio che aveva lasciato ragazzino era diventato un uomo. Non ti nascondo che ero molto più indignato di prima. Gli chiesi di promettermi che non sarebbe più successo, perché in tal caso mi avrebbe perso per sempre. Iniziò così il suo reinserimento sociale, e aprì una ditta da solo, senza alcun socio che poteva ricomprometterlo. Nel 2011, però, venne nuovamente assoldato dai Messina Denaro con la funzione di prendere degli appalti, gonfiare le fatture, e donare parte del denaro a loro. Nel 2013, il secondo arresto». 

 

E la tua reazione? 

«Furiosa. Decisi che mai più avrei voluto vederlo. Mia madre però mi convinse di accompagnarla al primo colloquio in carcere, e ci andai. Avevo bisogno di mortificarlo e ferirlo, dicendogli quello che pensavo di lui, ma non feci in tempo perché ci spiazzò tutti,  prima che aprissi bocca, annunciandoci in lacrime che aveva intrapreso il percorso di collaborazione. Quella scelta coraggiosa lo portò finalmente a fare i nomi, ad accusare i fratelli di mia madre, che ovviamente vennero successivamente condannati. Tagliammo così definitivamente ogni legame con loro». 

 

E così il disprezzo nei suo confronti di tuo padre sparì. 

«In un colpo solo era diventato il padre che avevo sempre voluto. Scelsi così di restare a Castelvetrano, e di non fare più ritorno a Roma – dove avevo studiato  Archeologia – per restargli accanto. È stato un bel momento perché finalmente quello che avevo sempre professato all’interno delle mura di casa potevo finalmente urlarlo al mondo. Mio padre si era schierato dalla parte della Giustizia, e avevo così  la totale  liberà di parola a sostegno del suo importante percorso». 

 

Hai rifiutato il programma di protezione. 

 

«Sì. Mia madre, mio fratello e io abbiamo scelto di non perdere la nostra identità e di non cambiare città. Siamo stati categorici. A fronte di ciò, spaventato per le ripercussioni, mio padre in carcere cominciò a rallentare la collaborazione con la Giustizia. I magistrati ci offrirono nuovamente la protezione, ma noi abbiamo rifiutato nuovamente. Non potevamo rinunciare alla nostre libertà per delle colpe non commesse, e per paura di un mafioso. Mio padre, convinto dalle nostre parole, ampliò così la sua collaborazione. 

La sua decisione è stata determinante perché dopo quelle dichiarazioni sono scattate delle operazioni antimafia molto vaste, che hanno coinvolto e condannato molte persone, tra cui la sorella, il nipote e il cugino di Matteo Messina Denaro. Mio padre con le sue dichiarazioni ha rotto un muro di omertà, fino ad allora consideravano invalicabile». 

 

Mai nessuna paura? 

 

«Tanta, perché non sapevamo cosa sarebbe potuto succedere. Ma a un certo punto con la paura impari a convivere. Non è la mafia a spaventarmi, ma la mafiosità. La mafia è fatta dalle persone che possono essere rinchiuse e isolate, ma la mafiosità invece si innesca con facilità nella mente delle persone oneste e le stravolge». 

 

Cosa ti ha fatto soffrire di più? 

«Quella fetta di società che mi ha considerato – con disprezzo – il figlio di un pentito. Oggi, per fortuna, molte persone si sono rivedute e hanno avuto il coraggio di riavvicinarsi a noi. Si sa che il tempo guarisce tutto e permette alla verità di risalire a galla. Credo che i miei concittadini abbiano compreso la mia reazione contro quel potere, che nessuno aveva il coraggio di contrastare. Hanno capito che ero nel giusto. Credo sopratutto che la gente sia ormai stanca di quel brutto marchio che ha sfregiato la mia terra». 

 

A Peppino Impastato ti lega – oltre a una pronunciata somiglianza fisica, e alla foga contro la mafia – il culto per la bellezza. Come lui, anche tu hai scelto la via dell’arte. 

«L’ho ammirato da subito per tutte le sue doti e qualità. Anche io sono da sempre convinto che la bellezza possa salvare il mondo. Ecco perché cerco di comunicare arte e bellezza al mondo con il mio teatro e i miei cavalli». 

Ci racconti cosa fai?

«Ho un centro-scuola di equitazione, e una compagnia di teatro equestre. Raccontiamo storie, attraverso gli umani e i cavalli, restando fedeli al concetto di centauro in chiave contemporanea. I nostri spettacoli sono un incontro tra le arti – dalla recitazione alla danza, dal canto alla musica – simili alle proposte del Cirque du Soleil. Non potrei e non vorrei fare altro. I cavalli sono la mia vita». 

Si legge tanto orgoglio per tutto quello che hai messo su. Ti sei mai pentito di qualcosa?

«Assolutamente, no. Rifarei tutti. Anzi avrei voluto fare di più. Prima di morire vorrei raccogliere i frutti del sacrificio. Non  mi riferisco a mio padre, perché lui ha sbagliato e ha pagato. Io non ho fatto niente e ho agito per istinto, senza pensare a costruire carriere e a divenire uno dei tanti paladini dell’antimafia. Ho fatto tutto col cuore, e ne sono orgoglioso». 

La libertà. La prima volta dopo l’annuncio della collaborazione di tuo padre con la giustizia. E poi dopo aver creato la tua missione di arte e bellezza. Oggi sei totalmente libero o qualcosa ancora ti frena? 

«Mi sento libero, sì. Perché la più grande libertà è quella di poter dire ciò che si pensa, ed essere quello che si è in vero. Senza pensare alle conseguenze. L’unica prigione sono le conseguenze che patisco a causa della società. Purtroppo non ho armi contro l’isolamento sociale che spesso mi avvolge. Ma continuo a essere ciò che sono, fino a quando avrò le energie per lottare e vincere in un contesto così difficile. Sono alimentato da tanto fuoco e mi auguro davvero che non si spenga mai». 

Domenico Marcella 

Twitter: twitter.com/dodoclock 


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