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Enzo Bianchi: impotenti e fragili senza gli altri

Enzo Bianchi Ansa - CESARE ABBATE
Pubblicato il 06-04-2020

La pandemia non guarda in faccia a nessuno e genera paura in tutti

Proprio perché la pandemia non guarda in faccia a nessuno e genera paura in tutti, anche noi monaci, che pure abbiamo una "vita differente", soffriamo e speriamo come gli altri, con sentimenti, emozioni e atteggiamenti plasmati dal nostro modo di vivere. Resta vero che noi monaci dovremmo essere esercitati a osservare queste restrizioni. Trascorriamo infatti la maggior parte delle ore e dei giorni abitando una cella, in una condizione di solitudine e silenzio; e quando stiamo insieme per la preghiera, i pasti o la comunicazione fraterna, godiamo della sobria consolazione di stare gli uni accanto agli altri.

Conosciamo soprattutto la fatica dello stare soli, in un silenzio che non è vuoto, ma permette l' ascolto, l' esercizio del pensare, la lettura, la preghiera. È noto a tutti il motto monastico " ora, lege et labora", ossia "prega, leggi e lavora". Sì, stare in cella significa una lotta corpo a corpo con i pensieri malvagi, con le pulsioni animalesche che ci abitano, con gli abissi infernali di disperazione e con la noia, l' accidia, ossia il disgusto per la vita interiore. La cella del monastero può diventare la cella del carcerato. Per questo ci sentiamo prossimi più che mai a quanti sono costretti a vivere in un alloggio in poco spazio, nell' anonimato delle città, e in una solitudine che non appartiene alla vocazione umana.

Venendo ora a mancare nella comunità tanti lavori, soprattutto quelli connessi all' ospitalità, che è sospesa, c' è più tempo per pregare.

E molti ospiti si attendono da noi soprattutto questo servizio della preghiera, dell' intercessione, accresciuto in questo tragico periodo. Ma a noi monaci in realtà non basta pregare. Lo facciamo con assiduità e convinzione, ma non è il fine della nostra vita. La preghiera resta un mezzo, uno strumento per accrescere la carità umana reciproca: l' unico fine della vita di ogni cristiano è infatti l' amore del prossimo. D' altronde la vita monastica ha sempre avuto come elemento essenziale l' ospitalità del povero, del viandante, di chi è in ricerca. Se mancano gli ospiti, manca la possibilità di esercitare il servizio dell' altro; di essere visitati da Cristo stesso, come scrive la Regola di Benedetto facendo eco al Vangelo; dell' incontro dei volti e della bellezza degli abbracci. Se mancano gli ospiti, manca qualcosa di essenziale alla nostra vita monastica cenobitica.

In questi giorni ci sentiamo impotenti: non possiamo uscire dal monastero, non abbiamo il ministero dei presbiteri, chiamati a stare in mezzo al gregge per accompagnare tutti e confermarli nella fede e nella speranza. Ci possiamo impegnare in forme di aiuto economico, almeno nei confronti di chi soffre la penuria o addirittura la fame, e con i mezzi di comunicazione possibili dobbiamo tenere vive le relazioni e raggiungere le persone sole, fragili, disabili, anziane, che vivono questi giorni con fatica e angoscia. Ma quanto ci sentiamo impotenti, e tutti fragili, sulla stessa barca! (Repubblica)

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