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Cultura, paura, fede tra scienza e tecnica

Giuseppe Longo
Pubblicato il 30-10-2020

È innegabile l’importanza che hanno per l’uomo di oggi la scienza e la tecnologia e il proponimento del fisico Gianpaolo Bellini e del filosofo Evandro Agazzi in L’uomo nell’era della tecnoscienza è appunto di indagare alcuni settori di punta della ricerca pura e applicata, che spesso s’intrecciano tra loro in un groviglio non facile da districare. Dopo millenni di sviluppo lentissimo, quasi impercettibile, la scienza e soprattutto la tecnologia hanno cominciato a manifestare una velocità e un’accelerazione impressionanti, tali che l’uomo fatica a padroneggiarle e deve inseguirne lo sviluppo. Alcuni pensatori, come Günther Anders, hanno decretato che l’uomo è obsoleto e che è preda della “vergogna prometeica”, un sentimento di sconforto di fronte a dispositivi pur da lui costruiti ma tanto più potenti, veloci e precisi. Questo sconforto può dare esiti diversi: o un senso di fiducioso abbandono allo strapotere della tecnologia, che spinge a delegare a essa ogni decisione e responsabilità; oppure una diffidenza più o meno radicale per timore di essere dalla tecnologia soppiantati o magari annientati.

C’è tuttavia da osservare che nella sua parabola terrena l’uomo apprende e opera grazie a varie fonti, oltre la scienza pura e applicata: l’arte, la musica, la letteratura, la poesia, la spiritualità... Si apre quindi il problema se la tecnoscienza faccia cultura, quale sia il rapporto tra cultura umanistica e cultura tecnoscientifica e, prim’ancora, che cosa sia la cultura. Questo è il tema del terzo capitolo del volume, mentre nel primo si tratteggia un quadro della concezione dell’universo, della materia e del tempo-spazio che ci offre la fisica. Nel secondo capitolo si illustra la concezione dell’uomo che stanno cercando di fornirci la genetica e le neuroscienze. Il quarto capitolo passa in rassegna le paure, le incomprensioni e gli entusiasmi degli umani di fronte alla tecnologia. Il capitolo finale, “Che posto per Dio nell’era della scienza e della tecnica?”, è una vera e propria gemma di analisi e di approfondimento sul tema dei rapporti tra scienza e religione, caratterizzati da diffidenze, discordanze ma anche da profonde sinergie. Ed è forse proprio questo quinto capitolo che si offre come il più interessante al lettore perplesso, agnostico o titubante.

Mette conto riportare le parole del fisico Carlo Rubbia, premio Nobel 1984: «La più grande forma di libertà è quella di potersi domandare da dove veniamo e dove andiamo. La libertà ti permette di porgere a te stesso la domanda in modo onesto e chiaro, ma calmo e sereno, in quanto non si tratta di una domanda di emergenza. È troppo bella e profonda per essere turbata da interessi immediati. Il problema è iscritto nel nostro bagaglio intellettuale, che lo vogliamo o no. Non esiste forma di vita umana che non si sia posta questa domanda. E non c’è forma di società umana che non abbia cercato in qualche modo di darvi risposta. Il mancare a questo appuntamento è una perdita, una disumanizzazione, un meccanismo interno di autopunizione. Quello che impressione di più della domanda è la sua universalità. È comune a tutti. Credo che tutto ciò faccia parte di un nostro bagaglio etico, e penso che quello che conta sia il rispetto del nostro umanesimo, del nostro essere uomini». Come non sentire qui riecheggiare la voce del pastore errante dell’Asia, di Erwin Schrödinger, di George Steiner e dei tantissimi altri che hanno intrapreso questa indagine vertiginosa?

È impossibile, nel breve spazio di una recensione, dar conto della ricchezza di questo volume, che dovrebbe essere il livre de chevet di quanti perseguono una esplorazione spirituale, spesso tormentata, dell’esistenza e che aspirano a una “vita esaminata”, dedicata cioè alla ricerca del senso del mondo e di noi nel mondo. A queste domande la scienza non sa e forse non vuole dare risposta, e in fondo le considera “metafisiche”, fuori della sua portata e perciò prive di senso entro i suoi stretti confini. Per concludere vorrei citare le parole del fisico Premio Nobel 1988 Leon Lederman: «La scienza non ha né il compito né la capacità di rispondere alle domande ultime, ma può contribuire a rendere concreta, affascinante, potente e drammatica la domanda del senso. Lo fa avvicinando la realtà sotto quell’angolatura stretta ma nitida propria del suo approccio, offrendo una visuale parziale ma suggestiva sulla realtà». (Avvenire)

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