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Covid, Culicchia: L'anno in cui l'uomo scoprì di non essere Dio

Stefano Baldolini Ansa - Alessandro Di Marco
Pubblicato il 09-03-2021

Lo scrittore ripercorre la pandemia, a 12 mesi dal lockdown e con 100mila morti

Un anno di pandemia in Italia. Ne abbiamo parlato con lo scrittore Giuseppe Culicchia, cercando di individuare i dieci momenti fondamentali. Con un tragico post scriptum.

1. Wuhan, prime remote avvisaglie

Ricordo che c’erano dei brevissimi articoli sui giornali che parlavano di una forma influenzale paragonabile alla Sars che era esplosa in questo luogo fino allora a noi ignoto della Cina, mentre tutte le prime pagine erano dedicate al festival di Sanremo. Ecco, ricordo che le polemiche tra Bugo e Morgan tenevano banco, mentre le notizie da Wuhan erano relegate in un trafiletto. Mi è rimasta impressa questa cosa qua. Mi ricordo anche che a Torino mi era capitato di incontrare due turisti orientali che indossavano la mascherina, e che avevo sorriso. Mai mi sarei immaginato che sarebbe diventata la nostra norma.

2. Codogno, il virus arriva in Italia

Quando ho visto le prime immagini di Codogno mi è venuto in mente un film di Hitchcock, Uccelli. Perché mi sembrava molto inquietante che questa cosa dalla Cina, alla fine per via aerea, fosse arrivata fin qui. Uccelli è un film sulla solitudine, sulla paura dell’altro, sentimenti che abbiamo cominciato a provare, ad avvertire, di lì a poco. Sull’abbandono che si ha nel momento in cui un amico o un familiare viene portato via e non lo si vede più. 

3. Il lockdown, la nostra distopia quotidiana

Lì mi è venuto in mente non un film, ma un libro, Il Condominio di Ballard, che inizia con questa scena di un dottore che si ciba del suo cane nel suo appartamento londinese. E’ un romanzo distopico, e io non sono appassionato di fantascienza, ma in quei giorni la distopia è arrivata nella realtà, credo che questa sensazione l’abbiano provata in molti. Io ho passato il lockdown nella mia casa di Torino, come tutti guardando fuori dalla finestra, ma quello che non dimentico è il rumore incessante delle sirene delle ambulanze. E l’angoscia che provavo perché pensavi che poteva toccare a te essere caricato sull’autolettiga.

4. I canti e il tricolore sui balconi, la resistenza

Purtroppo è durato poco perché l’Italia non è un Paese da patriottismo, anche se forse non è una questione solo italiana. Viviamo in una società talmente parcellizzata che essere solidali è difficile. Non mi ha stupito che sia durato poco, semmai mi ha stupito di riscontrarlo in quel momento. Un ricordo indimenticabile: sono nel mercato coperto di Porta Palazzo quando sento suonare Fratelli d’Italia e tutti quanti si fermano, chi in silenzio, chi a cantare.

5. La fine del lockdown, la liberazione. 

Un senso quasi di incredulità, mi chiedevo fino a che punto fosse finita davvero. Poi si sa, ci si abitua a tutto molto rapidamente, quindi era quasi strano uscire di casa.

6. L’estate: la sparizione del virus. La strana normalità

E’ partita l’estate ma io sono andato fino in Sicilia, da Torino a Marsala, in auto facendo una sola tappa. Non l’avrei fatto l’anno prima, ma provavo una certa riluttanza a viaggiare in nave o aereo. In quei mesi ho visto scene di fisiologica normalità da cui però mi sono tenuto alla larga. Non mi andava di mischiarmi troppo ai miei simili, la paura dell’altro evidentemente era stata introiettata. 

7. L’autunno dei tamponi e dell’attesa per la seconda ondata

Inizio ad avere l’impressione che il nostro sia un ottimismo della volontà. Un po’ come tutti in autunno rimango sbalordito, e mi rendo conto che nessuno ha le idee molto chiare, che gli esperti hanno opinioni contrastanti, che i governi traccheggiano. E soprattutto rimango stupito, penso come tanti, del fatto che l’estate sia stata buttata via. Senza misure urgenti per la sanità pubblica. C’erano ospedali da campo a Milano e a Torino che venivano montati e rimontati, come  fosse un continuo inseguimento. Ecco, questo montare e smontare tendoni improvvisati, ha un che di tragicamente patetico. Come se non riuscissimo davvero a fare i conti con la realtà.

8. La seconda ondata. Il ritorno del virus

Ho pensato: “Se hai scampato alla prima neanche la seconda dovrebbe riguardarti”. Ma credo che sia anche una questione legata a come funziona il cervello umano. Poi ti rendi conto che sono pensieri del tutto fallaci. Quando vedi questa curva di contagi scendere e poi risalire, non puoi non fare i conti con la fragilità umana.

9. La speranza: la campagna dei vaccini

I vaccini certamente costituiscono un argine. Ma ho intravisto lo stesso meccanismo delle mascherine, ricorda quelle domande: “Serviranno davvero? Sono obbligatorie?”. Si sono riproposte: “Servono? Quanto durano? Dobbiamo fidarci del russo e del cinese?”. Con un senso di grande indeterminatezza, dovuta non solo ai cosiddetti no vax. Di nuovo abbiamo a che fare con un momento di grande incertezza, senti dire che questa pandemia appartiene a un ceppo influenzale che si ripresenta sotto varie forme. Di nuovo siamo agli Uccelli di Hitchcock, che ti aspettano fuori.

10. Le varianti: la disperazione

Oggi uno fa fatica a distinguere tra le ondate, stiamo parlando della terza, ma nel retro pensiero di tanti c’è già la quarta. Temiamo un eterno ritorno dell’inquietudine. Inutile nasconderci. Si è annidata l’idea che tutto questo sia solo l’inizio di qualcosa, che ci attendono altre prove simili a questa nel futuro. Che stiamo facendo i conti con una modalità di esistenza che ha inevitabilmente a che fare con la provvisorietà, la mancanza di certezze. Eravamo abituati a pensare che la tecnologia e il progresso ci avrebbero salvaguardati dalla peste manzoniana o da qualche altra calamità. Mentre c’è un Rover su Marte che ci lascia meravigliati, ti rendi conto che basta un pipistrello o due per mandare a monte tutto, e questo ti fa vedere con altri occhi il nostro rapporto fiducioso con la natura e la modernità.

Dopo un anno: stiamo per toccare centomila morti.

E’ un numero simbolico e spaventoso. Per tanto tempo la nostra cultura ha rimosso l’ultimo grande tabù, quello della morte, che invece improvvisamente è tornato tema quotidiano. Se penso ai camion militari che portavano via le bare di Bergamo mi viene in mente che al tempo degli antichi, dell’Odissea, dell’Iliade, c’era la separazione tra dei e mortali. Ecco, noi lo avevamo rimosso, ma apparteniamo ai mortali. Abbiamo dovuto fare i conti con la nostra finitezza, che per certi versi - con molte virgolette -  è anche un bene. Voglio dire: è anche giusto fare i conti col fatto che non siamo eterni. 

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