Corriere, Repubblica, Sole 24 Ore: la terra non è dei ricchi, ma per incontrarci
Amici vi proponiamo la rassegna stampa dedicata ad alcuni dei protagonisti del Cortile di Francesco, edizione 2019. Riportiamo alcuni pezzi usciti sul Corriere della Sera, La Repubblica e il Sole 24 Ore.
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Lei, professor Jeffrey Sachs, è conosciuto come uno dei massimi esperti mondiali di sviluppo economico e lotta alla povertà. Parlerà al «Cortile di Francesco», nella terra del Santo di Assisi. Secondo lei, come è possibile combattere la povertà in un mondo che è tuttora dominato dall’economia di mercato?
«La Chiesa ha affrontato questa questione sin dalla grande enciclica di Leone XIII, Rerum Novarum, nel 1891. La Chiesa insegna che un’economia di mercato può essere sia efficiente che promotrice della libertà, ma che il mercato deve operare entro confini morali. I diritti di proprietà non sono inviolabili. Devono rispettare la dignità umana e le esigenze economiche. La ricchezza privata non deve abusare dei poveri o dell’ambiente. La Chiesa insegna la dottrina della Destinazione universale dei beni: la Terra e le sue risorse appartengono a tutti, per soddisfare i bisogni di tutti, non solo i capricci dei ricchi e dei potenti».
Che cosa pensa dell’insegnamento contro la povertà di Papa Francesco? Ritiene che negli Stati Uniti sia ascoltato dalla popolazione e dai politici?
«Papa Francesco è il leader morale più importante del mondo. Porta su di sé gli insegnamenti sociali della Chiesa, il suo personale splendore e una incredibile ispirazione pastorale. Raggiunge i poveri e loro lo seguono. Molti ricchi negli Usa sono perplessi, certo, ma alcuni stanno ascoltando. Negli Stati Uniti ci troviamo di fronte a una filosofia dell“l’avidità buona” perseguita da decenni e che ha portato il Paese alla sua attuale crisi morale. Dobbiamo ristabilire un quadro morale per l’economia e la politica».
«L’uomo e la terra. Un incontro sostenibile?». Questo è il tema dell’incontro ad Assisi il 18 settembre tra lei e Federico Fubini del «Corriere». Pensa che il futuro economico sia sostenibile per la Terra? E se sì, come?
«L’intera comunità mondiale, con i 193 stati membri delle Nazioni Unite, ha concordato il quadro dello sviluppo sostenibile in due accordi essenziali nel 2015. Cioè l’Agenda 2030, con i diciassette obiettivi di sviluppo sostenibile, e l’Accordo sul clima di Parigi. Gli Obiettivi di sviluppo sostenibili e l’accordo di Parigi sono realizzabili e fattibili, ma richiedono una nuova filosofia morale e nuovi modi di orientare la vita economica e politica».
E quali potrebbero essere i risultati concreti con questi nuovi orientamenti?
«Con le energie rinnovabili possiamo fermare i cambiamenti climatici causati dall’uomo. Con le nuove tecnologie intelligenti possiamo garantire assistenza sanitaria e istruzione per tutti. Ma dobbiamo anche costruire istituzioni politiche ed economiche che siano giuste, partecipative e veritiere, invece che società ed economie corrotte da grandi somme di denaro e ideologie dannose: come il nazionalismo estremo e il razzismo. Abbiamo soprattutto bisogno di istituzioni regionali solide, a cominciare da un’Unione europea forte e unita, di una cooperazione globale all’ombra della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione universale dei diritti umani. Sfortunatamente gli Stati Uniti sono caduti in una trappola della corruzione corporativa della politica americana. Però abbiamo la possibilità di cambiare e di rinnovare una forte cooperazione con l’Europa e nel mondo, se saremo fortunati nel processo politico».
A cosa pensa che l’uomo moderno dovrà rinunciare per non esaurire le risorse della Terra?
«Dovrà imparare a domare l’ avidità e la brama di potere. Aristotele ci ha già detto questo 2.300 anni fa: aveva ragione e non era un ingenuo. Papa Francesco ce lo ricorda di nuovo. Abbiamo la tecnologia, il know-how, la ricchezza e le conoscenze scientifiche per prosperare, per porre fine alla povertà estrema, salvare il Pianeta, aumentare il nostro tempo per la famiglia e gli amici. Ma dobbiamo mantenere i nostri orientamenti morali e far funzionare la politica per il bene comune. Dobbiamo superare la nostra terribile tendenza a odiare “l’altro” per poter cooperare a livello globale. Non sono semplici banalità ma approcci fattibili e pratici per un mondo che condivide bisogni comuni. Come ha scritto Papa Francesco in Laudato Si’: “L’interdipendenza ci obbliga a pensare a un mondo con un piano comune”». Corriere della Sera – Paolo Conti.
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Dal 18 al 22 settembre Assisi ospita la quinta edizione del “Cortile di Francesco” e il titolo prescelto per la manifestazione è “In_Contro. Comunità, popoli, nazioni”. Personalità della società civile, del mondo della religione, dell’arte e del giornalismo si confronteranno su temi d’economia, comunicazione, ambiente e dialogo tra culture e mondi differenti. L’apertura è affidata al direttore dell’Earth Institute alla Columbia University, Jeffrey Sachs, con una lectio sul futuro dell’economia internazionale. Poi seguiranno una quarantina di incontri con più di 70 i relatori raggruppati in quattro sezioni tematiche: Comunità stanziali e comunità in transito; Conoscenza e formazione; Economia globale; Habitat. Tra gli appuntamenti da segnalare sono il dialogo tra l’economista Giovanni Tria e il direttore del Sole 24 Ore, Fabio Tamburini, dal titolo “Il governo dell’economia nazionale nell’ambito dei rapporti europei e internazionali”, e lo spettacolo teatrale di Giancarlo Giannini che reciterà alcuni passi del Cantico delle creature, dell’Eneide e di Leopardi.
Tra i partecipanti si annoverano anche il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, il filosofo Massimo Cacciari, lo storico Franco Cardini, il presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, l’ad Rai, Fabrizio Salini, gli economisti Carlo Cottarelli, Alan Friedman e Mario Monti, i giornalisti Pietrangelo Buttafuoco, Marco Damilano, Corrado Formigli, Federico Fubini, Massimo Giannini, Federico Rampini, il presidente della Fnsi, Giuseppe Giulietti, l’artista Emilio Isgrò, il fondatore di Emergency, Gino Strada, gli scrittori Eraldo Affinati, Paolo Rumiz e Marcello Veneziani e i costituzionalisti Sabino Cassese e Michele Ainis. Sono infine previste video proiezioni ed eventi artistici, come la mostra di Mimmo Paladino e il concerto di Giovanni Allevi (per tutte le info: www.cortiledifrancesco.it). “Il Cortile di Francesco” chiuderà la sera del settembre con la spettacolare proiezione sulla facciata della Basilica Superiore di San Francesco d’Assisi delle immagini che il fotografo Sebastião Salgado ha dedicato all’Amazzonia. E la proiezione sarà scandita da un dialogo tra il celebre fotografo e il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura. Al cardinal Ravasi abbiamo chiesto di spiegare il tema di questa edizione del “Cortile di Francesco”. «Il tema di questa edizione - ha dichiarato Ravasi - è quello di superare nella parola “in_contro” quel trattino, tuttavia senza ignorarlo. Solo il dialogo spinge “le comunità, i popoli, le nazioni” (come recita il sottotitolo) a muoversi in un confronto reciproco: è il momento dell’”in”. Esso, però, non ha come meta l’omologazione indifferenziata e superficiale o una mera convivenza. Fondamentale è anche quel “contro” che rimanda al riconoscimento delle diversità, una conoscenza fatta di rispetto nel quadro della comunità internazionale».
Ma il concetto di comunità internazionale sembra entrato in crisi negli ultimi anni. Come è possibile recuperare la civiltà dell’in_contro e della vicinanza? «Penso per prima cosa - sottolinea il cardinale - che recuperare questa civiltà sia uno dei compiti fondamentali delle religioni che devono ricordare a tutti la nostra comune origine adamitica. Poi, è uno dei compiti fondamentali della cultura, che deve sollecitare a metterci sempre in relazione con l’altro, ma anche a riconoscere e comprendere le diversità». L’economia può avere un ruolo nell’avvicinare i popoli? «Può farlo sono se torna a recupere il suo autentico significato. L’etimologia della parola “economia” significa “la legge che governa la casa comune”. Avere invertito il primato dell’economia rispetto a quello della finanza ha creato danni sociali e lacerazioni gravissime. Dunque è necessario tornare all’economia come “visione di insieme”, a una visione direi “filosofica” dell’economia, come già suggerito da Amartya Sen». Secondo Jeffrey Sachs, che quest’anno apre gli incontri del “Cortile di Francesco”, gli squilibri sono frutto della casualità della natura, degli effetti del clima e della geografia dei luoghi; e basterebbe aumentare gli aiuti dai Paesi ricchi a quelli più poveri. È corretto questo approccio? «Penso - conclude il cardinal Ravasi - che una corretta redistribuzione dei beni sia una giusta modalità per rendere più sostenibile l’esistenza comune. Ma è molto importante creare a monte una grande consapevolezza culturale: viviamo tutti in una casa comune. Sul tema dell’ambiente, ad esempio, questa consapevolezza sta prendendo piede, devo dire anche grazie all’impegno encomiabile di Greta Thunberg. È necessario educarci a questa visione: noi siamo un “tutto” come un corpo umano, e se il polmone di questo corpo si ammala (ricordiamo che chiamiamo l’Amazzonia “polmone del mondo”), non si ammala il ricco o il povero, si ammala tutto il corpo. Ecco perché termineremo quest’edizione del “Cortile di Francesco” ammirando e commentando le immagini dell’Amazzonia scattate dal fotografo Sebastião Salgado. La nuova educazione può partire anche da qui». Sole 24 Ore – Marco Carminati
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Seduto davanti a una scrivania coperta, Sebastião Salgado scarta le immagini a una a una. «Questa no, questa no...». Il colpo d’occhio dura pochi secondi. Ogni tanto si ferma su una foto in bianco e nero per misurarla con la squadra. «Guarda le mani», dice a Françoise, la photo editor complice di tante avventure. «Stiamo facendo una seduta di sciamanismo», scherza con il suo francese musicale, non ha perso l’inconfondibile accento brasiliano nonostante sia arrivato a Parigi nel lontano 1969. L’agenzia Amazonas Images è affacciata sul canal Saint-Martin, dove gli studenti vengono a prendere il sole settembrino.
Salgado ci porta in un’altra stanza dove sono appesi ritratti di indiani dell’Amazzonia, vuole mostrarci alcuni scatti del suo nuovo, monumentale progetto, «ho ancora migliaia di fotografie da visionare», anni passati a viaggiare nella più grande foresta tropicale del mondo e a cui il fotografo brasiliano di In cammino e Genesis dedicherà presto una mostra. «Voglio fare qualcosa di innovativo, con delle proiezioni, dei concerti. È un’idea di Lélia», racconta citando l’inseparabile moglie con cui ha condiviso tutto da oltre cinquant’anni, sin da quando era studente di economia. Gli alberi maestosi si specchiano nei fiumi, le forme incredibili delle nuvole, «questa
sembra un drago», la luce che taglia l’orizzonte, «è un cielo che non esiste da nessuna altra parte».
L’Amazzonia brucia e il presidente brasiliano Jair Bolsonaro è complice del disastro ecologico, resta indifferente agli appelli del mondo. «Aspetta, facciamo un passo indietro», commenta Salgado, settantacinque anni, con la sua aria da vecchio saggio, un cespuglio irsuto di sopracciglia bianche sopra agli occhi azzurri. Si alza per cercare una cartina dell’Amazzonia. Indica le riserve indiane protette, i parchi nazionali tutelati dal ministero dell’Ambiente. «Queste zone per fortuna sono ancora relativamente preservate e rappresentano oltre metà della foresta». È sui territori statali, le terras devolutas, prosegue Salgado, che si concentra la devastazione.
Che cosa ha pensato vedendo le immagini degli
incendi?
«Sapevamo che sarebbe successo. La foresta tropicale non brucia facilmente perché è rigogliosa, il legno è fresco, bisogna prima abbatterlo e aspettare che secchi. E quindi erano mesi che si preparavano gli incendi, tutti ci eravamo accorti di un’accelerazione nel disboscamento che purtroppo non è nuovo. Negli ultimi cinquant’anni è stato distrutto quasi il venti per cento dell’Amazzonia. Bolsonaro non fa altro che continuare in modo ancora più brutale. Dall’epoca della dittatura militare è stata promossa una politica di colonizzazione delle terras devolutas, abbattendo foreste, costruendo immense fattorie. E anche dopo l’arrivo della democrazia si è continuato. Ci sono stati governi più complici, altri che hanno solo fatto finta di niente. Ora Bolsonaro è più pericoloso perché vuole destabilizzare anche le zone finora preservate».
Chi sono i colpevoli?
«Bolsonaro ha detto in campagna elettorale che bisognava allargare la superficie abitata e coltivata dell’Amazzonia. Non appena è arrivato al potere ha tolto tutti i tecnici del ministro dell’Ambiente sostituiti da militari di sua fiducia. Ha eliminato la legge che puniva i responsabili di deforestazione. E poi ha tagliato i fondi al Funai, l’organismo statale che si occupa delle riserve degli indiani che rappresentano territori grandi due volte e mezzo la Francia. Non c’è niente di casuale, tutto è stato pianificato. Anche il momento in cui scatenare gli incendi. È stato fissato il giorno del fuoco».
Sta dicendo che c’è stato un coordinamento?
«Certo, tutte le fattorie dell’Amazzonia sono collegate via radio, con la regia di gruppi dell’agroalimentare di destra o estrema destra che hanno votato per Bolsonaro. L’altra forza destabilizzante per l’Amazzonia sono le sette evangeliche che vogliono convertire gli indiani, pensano di catechizzare queste anime. Bolsonaro e
sua moglie fanno parte di una setta, rappresentano anche questo elettorato».
Anche la sinistra, il Partito dei lavoratori, ha delle colpe?
«Il Brasile è l’unico Paese al mondo in cui la classe operaia è arrivata al potere senza la lotta armata. La vittoria di Lula nel 2003 è stato un grande momento. Lula ha fatto tante cose per dare più tutele agli indiani in Amazzonia anche se non ha saputo cambiare davvero il modello produttivista dell’industria agro-alimentare. Né lui, né Dilma Rousseff».
Lula adesso è in carcere, fatica a esserci una vera opposizione a Bolsonaro.
«All’epoca ho sostenuto Lula come tante altre persone di sinistra ma oggi sono duro con lui perché ha compiuto tremendi errori. Il più grave è essersi intestardito a essere il candidato del Partito dei lavoratori l’anno scorso, nonostante fosse ovvio che sarebbe finito in galera. Il Pt avrebbe potuto vincere le elezioni. Lula non lo ha permesso, ha tenuto il partito in ostaggio. E quando finalmente c’è stato il via libera alla candidatura di Fernando Haddad, che per me è fantastico, era già troppo tardi, non c’era più tempo di fare campagna elettorale. In un certo senso, Lula ha permesso che Bolsonaro arrivasse al potere. È una colpa gravissima».
Come si può fermare la devastazione dell’Amazzonia?
«Attraverso la mobilitazione internazionale Bolsonaro rischia di perdere l’appoggio di una parte della grande industria agroalimentare che ora teme conseguenze sulle esportazioni. I governi europei devono fermare l’accordo di libero scambio con il Brasile e gli altri paesi dell’America latina, quel Mercosur che la Francia ha già detto di non voler più sottoscrivere. Anche l’Italia deve rinunciare a questa intesa che spinge ad aumentare la superficie coltivabile e quindi la deforestazione. Aggiungo poi che Bolsonaro ha liberalizzato i prodotti più tossici nell’agricoltura, e quindi attraverso il Mercosur i paesi europei rischiano di essere invasi da cibo avvelenato».
C’è qualcosa di visionario nel suo lavoro?
«Quando negli anni Ottanta ho cominciato a lavorare sulla fine della seconda rivoluzione industriale nel progetto La mano dell’uomo ho passato anni a osservare la trasformazione del lavoro e dei sistemi produttivi automatizzati accompagnati dallo spostamento dell’industria verso paesi nei quali la manodopera era a basso
costo. All’epoca nessuno parlava ancora di globalizzazione, ma ho sentito che era un altro grande tema. In modo naturale ho deciso di occuparmi della riorganizzazione della famiglia umana. È nato il progetto In cammino che parla degli spostamenti di popolazioni, dell’immigrazione, è una storia dentro alla quale stiamo ancora, ma che per me rappresenta un ciclo chiuso».
Perché?
«Ho avuto molti riconoscimenti per In cammino, ma per me è stato un lavoro molto pesante. Ne sono uscito provato, in qualche modo anche depresso a causa di tutta la violenza umana che avevo visto. Sono tornato con Lélia nelle mie terre natali, nella regione del Minas Gerais, per ricostruirmi fisicamente e mentalmente. È stato così che sono arrivato all’ecologia. Mi è sembrato evidente allora – eravamo all’inizio degli anni Duemila – che sarebbe stata la grande storia del nuovo secolo. Per otto anni ho girato il mondo verso i luoghi più incontaminati del pianeta e ho lavorato molto in Amazzonia».
Fotografare la natura è molto diverso?
«Fino a Genesis mi ero occupato di un solo animale, l’Uomo. E sinceramente non sapevo come avrei fatto. Poi ho scoperto che, quale che sia il soggetto, bisogna cominciare con un atto d’amore. Ci devi mettere il cuore. Per fotografare gli umani devi rispettarli, parlarci, capire da dove vengono, che cosa desiderano. Devi farti accettare perché solo così riceverai la foto che cerchi. Il mio primo reportage per Genesis era alle Galapagos. Volevo vedere le tartarughe ma loro sfuggivano al mio obiettivo».
Alla fine ci è riuscito.
«Dopo giorni di blocco totale ho immaginato di essere anche io una tartaruga. Mi sono messo a terra e sono avanzato lentamente a carponi. Le tartarughe mi hanno finalmente accolto nel loro mondo. Un’altra volta in Brasile ho fatto la stessa cosa in una riserva di caimani. Sono diventato un coccodrillo, e giuro che i caimani ridevano e alla fine sembravano quasi mettersi in posa. Per fotografare un albero è uguale. Devi amarlo, rispettare il suo silenzio, farti accogliere nella luce e nello spazio. Mi ricordo che all’inizio il mio agente a Londra mi diceva: “Sebastião, non farlo, è un rischio, sei un fotografo sociale, ti rovinerai”».
Questa funzione sociale è scomparsa?
«Il problema è che siamo animali politici. Tutto quello che facciamo si inserisce nella società e nel momento storico, quindi è ovvio che c’è una componente sociale anche in Genesis o nel mio nuovo progetto. Oggi mi interessa soprattutto che le mie foto insegnino alle persone ad amare l’Amazzonia, a capire la bellezza di questi paesaggi, la ricchezza della cultura indiana, e il bisogno di proteggerla. La militanza, l’impegno, viene dopo. Non ho nessun messaggio politico».
Crede in Dio?
«No, non sono credente. Per me il grande pensiero spirituale è l’evoluzione del mondo minerale, vegetale, animale. Da quando ho cominciato Genesis mi sento parte di quest’armonia. C’è una perfezione che mi sorprende ogni volta. I cristiani rispettano Cristo, io rispetto Darwin».
Perché ha deciso di impegnarsi concretamente attraverso l’Instituto Terra?
«Con Lélia abbiamo ripreso la fattoria dei miei genitori. Sono figlio di contadini, anche io ho partecipato alla deforestazione, non dell’Amazzonia ma della foresta atlantica del Brasile che è stata distrutta ancora di più ed è quasi scomparsa del tutto. Da piccolo mio padre mi faceva andare a dorso di mulo con i carichi di legname. Allora non c’era la consapevolezza dei danni che stavamo facendo. Con l’Instituto Terra abbiamo creato una riserva naturale immensa, grande quanto il Portogallo. Abbiamo piantato milioni di alberi, oltre trecento specie. Sono tornati gli animali, stiamo recuperando le sorgenti d’acqua. Ci vorranno ancora venti o trent’anni per riportare il paesaggio a come era prima, ma lo faremo, anche se io e Lélia non potremo vedere questo sogno completamente realizzato».
È il sogno che la rende ottimista?
«Non sono molto ottimista se guardo a quanta devastazione ha già fatto l’homo sapiens. Siamo predatori incredibili. L’unica cosa rimasta è l’Amazzonia che alimenta la produzione di ossigeno del pianeta. Bolsonaro è solo una tappa nella continuità di un processo terribile. Credo che l’essere umano non resterà qui ancora per molto. Siamo già nella fase terminale, non viviamo più sul pianeta. Chi abita a Roma, Parigi o Rio, è già un alieno. Forse resteranno forme di vita sul pianeta, ma non so se ci saremo ancora noi umani. Se ci fosse una catastrofe naturale non saremmo più capaci di sopravvivere, abbiamo disimparato le nozioni più elementari del rapporto con la natura, quello che gli indiani in Amazzonia sanno invece ancora fare. È giusto tentare qualsiasi cosa per salvarci, ma quello che vedo non è di buon augurio. Robinson – La Repubblica – Anais Ginori
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