Comunicazioni Sociali, Damosso Tg1:coraggio, ricerca e presenza dei giornalisti
Le parole di Papa Francesco sui media quest’anno, accompagnate dai suoi gesti, dalle sue decisioni, dalla sua testimonianza di rinnovamento profondo, ci spingono non solo a dare più spazio alle notizie basate sulla realtà del bene, della speranza, della fiducia, della non rassegnazione di fronte al male (che non può avere l’ultima parola), ma ad un discernimento più impegnativo sulla cultura dei media, sulla novità della notizia, che investe le stesse modalità di scelta, gli stessi criteri di selezione delle notizie, anche nell’ordine con cui vengono comunicate e pubblicate.
Credo per questo che ciascun operatore debba essere in grado di affrontare l’era del digitale e dei social, nella consapevolezza di poter fare riferimento ad una bussola di esperienze e di storie che raccontano la centralità della persona e la compiutezza del bene come concreta solidarietà, fraternità, amore.
C’è un amore più grande che è in grado di affrontare la logica della “forza”, che spesso muove il mondo, le relazioni, gli stessi rapporti fra le persone, i popoli. Questo amore è evidente, anche se a volte nascosto, soffocato, in croce. Ma l’impegno della nostra coscienza professionale può cercare di svelarlo, nonostante i nostri limiti, i nostri egoismi, i nostri errori. Tutto questo nasce e si consolida in una formazione sul campo, dentro il lavoro di tutti i giorni, tra inevitabili contraddizioni, ma verso la costruzione di una missione sociale e responsabile della comunicazione.
Moltiplicare le occasioni di condivisione, di confronto, di ascolto reciproco è una via per superare la frammentazione dell’impegno di molti comunicatori. Non mancano le associazioni, gli eventi, le amicizie professionali, in molte realtà il lavoro di squadra, gli spazi universitari e nelle scuole. Questa rete può essere in grado di rendere “virali” le storie positive e nello stesso tempo promuovere il riconoscimento veloce delle fake news, e smascherare i falsi che inquinano le notizie.
Perché, ad esempio, non promuovere una volta all’anno un evento nazionale in cui coinvolgere veramente tutti i professionisti impegnati? Partendo da un dato che si sta confermando a maggior ragione con il digitale. Il giornalismo, sempre più relazione, e più velocemente “vicino” al fatto da raccontare, esalta le figure professionali più prossime al fatto, come il cronista, l’inviato, il corrispondente, ma anche il semplice redattore o il conduttore impegnato nelle dirette.
E succede che proprio l’assenza di cronisti sul campo possa determinare conseguenze gravi, come ha scritto sul New York Times Bill Keller (da Repubblica del 14-12-2012, “Il prezzo da pagare per essere sul posto”), riferendosi all’omicidio dell’ambasciatore americano in Libia, Chris Stevens l’11-9-2012: “È scandaloso che l’amministrazione Obama abbia descritto in prima battuta l’attacco che ha ucciso Chris Stevens non come un complotto terroristico bensì come una dimostrazione di protesta, degenerata. Come ha potuto l’intelligence prendere una cantonata simile? Ho il forte sospetto che l’errore scaturisca anche dal fatto che la maggior parte di noi giornalisti non eravamo lì”.
La centralità della testimonianza del cronista nei media, in tutti i media, è confermata, dunque, nell’era dell’informazione 2.0 ed è anche un impegno di trasparenza per una opinione pubblica che chiede giustamente onestà, competenza e credibilità.
È questa la sfida per chi si accosta alla professione del giornalista, come per chi la svolge da molti anni. È questa la missione sociale del giornalista, che si realizza sempre di più oggi nel dialogo con tutti, fra le religioni e fra credenti e non credenti: raccontare sul posto, cercare la verità, difendere la propria autonomia professionale e libertà di coscienza. In questo lavoro è fondamentale mettere da parte ogni autoreferenzialità, per concentrarsi proprio sul dialogo come metodo, sulla cultura dell’ascolto e dell’incontro, come cerchiamo di fare ogni giorno nella ormai trentennale esperienza di Unomattina, con la redazione del Tg1 guidata da Mario Orfeo.
La tecnologia è una grande risorsa e va sfruttata, ma non sostituisce il fattore umano, la dinamica relazionale tra le persone e i gruppi, la volontà di perseguire un fine nella propria attività: che il bene comune prevalga, che il male non si ripeta e non abbia mai l’ultima parola, che vinca la riconciliazione, la pace, la giustizia, la solidarietà. Sono i valori umani fondamentali di una convivenza pacifica e pacificata, ancora più forti e urgenti di fronte alla sfida terroristica di questi anni, al potere delle mafie e della corruzione, tutti mali di fronte ai quali non si può essere neutrali.
Se il fondamento della comunicazione è la relazione, allora il giornalismo può contribuire alla cultura dell’incontro, al bene comune, ad una democrazia deliberativa e partecipata. Tutto ciò distingue la missione sociale del giornalista, distingue il giornalista-giornalista dal giornalista-impiegato (con un ruolo solo esecutivo), distingue il racconto veritiero dai resoconti funzionali solo al successo o alla promozione di lobbies, dal romanzo. È questa la vera battaglia per il mantenimento del giornalista e della sua funzione di autonomia, che equivale alla salvaguardia della sua credibilità. Vuol dire immergersi senza paura nel disordine delle cose. Ecco che cosa dice, ad esempio, Claudio Magris, sulla natura del giornale: “È una barca di carta spezzata di continuo dalle onde, è sempre in viaggio e non conosce la pace del porto. Quanto più è esatta e onesta nella sua rappresentazione del reale, tanto più la sua cronaca assomiglia spesso a un testo surrealista, perché accosta sulla pagina le cose più diverse del reale, l’assurdità, il bene e il male, il coraggio, il sudiciume e le inimmaginabili trasformazioni del mondo” (da “Il Corriere da 140 anni racconta il mondo”, Corriere della Sera, 3-3-2016).
Una sfida che non è mai del tutto definita e che ricomincia ogni giorno, alla ricerca di una bellezza che è sempre intorno a noi, anche quando sembra scomparsa. (Copercom)
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