Come cambia la comunicazione nell’era del populismo. Politica e società ad alto volume
La politica sta diventando sempre più comunicazione e marketing. Dagli Stati Uniti all’Italia si sta consolidando un nuovo modo di conquistare e gestire il consenso elettorale. Ruota intorno a questa tesi il nuovo libro di Francesco Giorgino, conduttore di punta del Tg1, docente universitario alla Luiss, alla Sapienza e a Bari, editorialista della Gazzetta del Mezzogiorno. Giorgino, che ha al suo attivo decine di saggi sui temi della comunicazione, del giornalismo e del marketing, da oggi consegna ai lettori, per dirla con le parole del politologo Giovanni Orsina, autore della prefazione, “uno sforzo di storia del presente” al fine di analizzare la politica italiana degli ultimi anni ed in particolare l’avvio della stagione populista e sovranista con un approccio “entomologico” e soprattutto “senza animosità”. Un’occasione utile quella di “Alto volume” (Luiss University Press) per parlare di luci ed ombre della comunicazione di Salvini e Di Maio, per affrontare il modo in cui il Pd si muova alla ricerca di un leader e per interpretare la “resistenza” in atto da parte di ciò che resta del fronte berlusconiano.
Perché il titolo “Alto volume”?
Credo sia il modo migliore per descrivere il tempo che stiamo vivendo. La società si muove ad una velocità impressionante. Prevale il turbo pensiero e l’approccio euristico ed emozionale, volendo usare la felice classificazione fatta da Kahneman già alcuni anni fa. Domina il paradigma della connessione continua, ma non necessariamente della condivisione. L’individuo vale più della persona. Il narcisismo è tra le tendenze più diffuse. Il presente deborda rispetto al passato e al futuro, come sottolineato con efficacia da Bauman e Beck. Assistiamo, soprattutto, ad una fase di profonda trasformazione della politica in comunicazione. L’espressione “Alto volume” si riferisce, proprio all’intonazione complessiva e alla iper-comunicazione come uno dei tratti identificativi della società tardo moderna.
La iper-comunicazione della politica è un bene o un male?
Ci sono elementi positivi ed elementi negativi. Quelli positivi sono rintracciabili nella volontà della nuova politica di essere responsivness rispetto ai propri elettori. Se osservo, almeno nel senso proposto da Habermas, l’agire comunicativo dei protagonisti dell’era del sovranismo e del populismo noto da un lato la volontà di assumere impegni con i cittadini dopo averne compreso le priorità senza troppe mediazioni, dall’altro la determinazione a mantener fede sempre e comunque a questi impegni. È un po’ come dire: mi muovo dentro il recinto del mandato che tu elettore mi hai conferito per fare in modo che la mia rappresentazione all’interno della sfera pubblica mediata ti dia la certezza che sto rispettando il patto posto a fondamento dell’attività di rappresentanza. E lo faccio continuamente, senza interruzioni, né limiti. Tra gli elementi negativi c’è la ridondanza di certi messaggi, l’enfatizzazione dei processi di mediatizzazione e l’eccesso di personalizzazione. C’è quella che Orsina nella prefazione definisce “teatralizzazione della politica”. Ma c’è anche il primato del pubblico sulla opinione pubblica: i due concetti rispondono a logiche diverse, anche se talvolta tendono ad essere confusi.
Nel primo capitolo del libro vengono affrontati, tra gli altri, i temi della prima e della seconda modernità, dei “populismi” e del cambiamento come frame.
Per comprendere il populismo dobbiamo ricordare il significato della parola “democrazia”. Non dimentichiamoci che essa è anzitutto potere “del” popolo, “dal” popolo, “per” il popolo. Esiste un vincolo indissolubile a livello semantico tra la democrazia come opzione grazie alla quale esercitare il potere decisionale e il popolo. Con questa simbiosi ci si riferisce al processo di legittimazione ad agire, lo stesso che considera i cittadini aventi diritto al voto come elettorato attivo e gli eletti come invece elettorato passivo, ma anche alla consapevolezza che gli unici interessi che vanno salvaguardati sono quelli della collettività. È importante ricordare ciò per evitare che si indugi in una connotazione esclusivamente negativa della parola “populismo”. Quanto al “cambiamento”, mi preme collocarlo tra i frames del nostro tempo ed invito i lettori a non confonderlo con il “superamento”. I due piani vanno analizzati in modo distinto: si può cambiare senza necessariamente demolire.
Da dove nascono i populismi e i sovranismi?
La storia ci insegna che i populismi nascono quasi sempre come reazione al deficit di democrazia. Deficit infantile, come sostiene chi fa riferimento a disegni di democrazia non ancora portati a compimento, deficit senile quando entrano in crisi i modelli mainstream, quando cioè il valore della rappresentanza si infrange sulla natura dei problemi irrisolti e quando si affievoliscono archetipi collettivi, mappe concettuali e corpi intermedi. A livello sociologico credo sia molto rischioso far coincidere il populismo solamente con l’oscillazione continua tra la sfera del qualunquismo e quella autoritarismo e tra la prospettiva dell’analfabetismo e quello dell’irrealismo. Si pensi a quanto è difficile individuare le differenze esistenti tra ciò che è “popolare” e ciò che è “populista”. Quanto al sovranismo, esso è una risposta programmatica al bisogno di populismo, che a sua a volta si sviluppa almeno in presenza di tre concause. La prima: il crescere delle disuguaglianze sociali. La seconda: il fenomeno delle migrazioni e la paura dell’assedio dell’alterità all’identità, con implicazioni culturali, religiose e persino antropologiche, come dimostra il tema della sicurezza. La terza: il primato degli interessi nazionali su quelli internazionali, anche a seguito dell’entrata in crisi del modello della globalizzazione.
Nel libro vengono accostate teorie di politica e di marketing, due parole che onestamente si fa fatica a considerare come compatibili tra loro
È vero. Il marketing è la disciplina che studia le modalità attraverso le quali far incontrare domanda e offerta all’interno del mercato, mentre la politica e scienza ed arte della decisione e della scelta, azione programmatica sulla base dell’esercizio del diritto di voto. Ma mi chiedo: oggi la politica non è anche un grande mercato? L’investitura che, in termini di fiducia, il politico riceve al momento dell’elezione certo non esaurisce la portata complessiva della strategia messa in campo. Al contrario, la canalizza in direzione di altri binari. Lo stretching della campagna elettorale è una delle prove di questa situazione che invoca, proprio perché orientata al mercato e cioè alla conquista e al consolidamento nel tempo del consenso, l’adozione di tecniche di content marketing e di politelling. Del resto, sono i micro racconti ad aver preso il posto delle macro narrazioni del XX secolo, come evidenziato da Llyotard nella sua teoria sulla postmodernità.
A proposito di storytelling politico, qual è l’elemento più connotante i politici contemporanei?
Direi la tendenza ad apparire “uno del popolo”. Si fa di tutto per ridurre le distanze tra l’élite, di cui la politica ha sempre fatto parte, e i cittadini. E ciò ha ricadute significative sul linguaggio verbale adoperato: si pensi al lessico iper-semplificato, alla tendenza a parlare per slogan e claim (come avviene appunto nel marketing). Conseguenze vi sono anche sul linguaggio paraverbale, specie per ciò che concerne il tone of voice, e su quello extraverbale, ovvero sul body language. È così che assistiamo alla candidata alle primarie democratiche alla Casa Bianca Elizabeth Warren che si fa riprendere e rilascia interviste nel cortile di casa, a fianco di marito e cane. È così che possiamo interpretare il tentativo di Theresa May di creare empatia durante l’assemblea del partito conservatore entrando in sala a suon di musica ed ancheggiando in modo un po’ goffo. È così che possiamo spiegare i numerosi post pubblicati sui social network da Salvini e Di Maio mentre entrambi sono immersi nella dimensione quotidiana della loro esistenza. Una quotidianità che diventa pubblica e, perciò, rilevante anche a fini politici. Del resto, Goffman ci aveva messo in guardia dai pericoli connessi all’erosione dei confini esistenti tra gli spazi di palcoscenico e quelli di retroscena. È la politica pop bellezza.
In collaborazione con La Gazzetta del Mezzogiorno
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