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L'angelo che non c'è

Redazione
Pubblicato il 30-11--0001

Nella grande basilica sepolcrale si moltiplicherà il numero degli Angeli che sorridono festosi e dei santi dipinte alle pareti

Come frate Francesco sentì avvicinarsi il suo appuntamento con "sora nostra Morte corporale, da la quale nullu homo vivente po' skampare", lasciò il Palazzo Vescovile che lo ospitava e si fece accompagnare in "quel luogo che conteneva la chiesetta di Santa Maria della Porziuncola [perché] era favorito da una più abbondante grazia e onorato da frequenti visite di spiriti angelici" (1Cel, 106): non per nulla la chiesa della Porziuncola era intitolata alla Madonna degli Angeli. All'indomani della sua morte, "arrivarono numerosissimi i cittadini di Assisi con tutto il clero e, prelevando il sacro corpo dal luogo dove era morto, lo trasportarono onorevolmente in città tra inni e canti e squilli di trombe" (1Cel, 116). Per quattro anni il feretro di Francesco restò esposto all'interno della chiesa di San Giorgio sul versante orientale della città. Nel frattempo il pontefice Gregorio IX elevò Francesco alla gloria degli altari e dette inizio alla costruzione di una grande basilica sepolcrale, sul versante opposto del colle sopra il quale sorge la città di Assisi. Il 25 maggio 1230 la salma di san Francesco fu trasportata nella nuova chiesa, nel corso di una tumultuosa cerimonia che suscitò l'ira di Gregorio IX, e fu tumulata nella viva roccia sotto l'altare maggiore.

Il luogo prescelto non doveva essere particolarmente frequentato da creature angeliche. Era anzi chiamato il "colle dell'Inferno", essendo utilizzato per le esecuzioni capitali. Come vi sarà trasferita la salma di san Francesco, il luogo prenderà il nome di "colle del Paradiso", per essere beatificato dalla viva presenza del santo. E come l'interno costruito di pietra della vasta aula papale superiore comincerà ad assumere le sembianze del Paradiso, con le vetrate multicolori alle finestre e le figure dei santi dipinte alle pareti, si moltiplicherà il numero degli Angeli che sorridono festosi dalle vetrate e dalle pareti, a indicare il fine verso cui tende la vita di ciascun cristiano. Per sovraprezzo, l'altare nel transetto meridionale sarà intitolato a san Michele Arcangelo. Sulle pareti circostanti Cimabue dipingerà episodi dell'Apocalisse di Giovanni e sul claristorio superiore la lotta tra san Michele e Satana, disseminando miriadi di schiere angeliche tumultuanti all'interno di ciascuna storia e nei costoloni della volta.

Se invece percorriamo la cripta profonda che conduce alla tomba del santo, in testa alla navata vedremo un grandioso Giudizio Finale che occupa l'intera calotta absidale alle spalle dell'altare maggiore. Contro i pilastri ai lati della monofora centrale è dipinto un gigantesco san Michele Arcangelo che minaccia con la spada sguainata un Satana incatenato che calpesta le anime dell'Inferno. Oltrepassando san Michele si percorrerano le strade del Paradiso, mentre alle spalle di Satana c'è l'ingresso ai gironi infernali. Questo Giudizio Finale rielabora in chiave francescana il Giudizio di Michelangelo della Sistina. Fu dipinto nel 1623 dal pittore orvietano Cesare Sermei, in sostituzione di un dipinto più antico il cui aspetto ci è noto attraverso la descrizione che ne fece Giorgio Vasari nella vita di Stefano Fiorentino, e la descrizione di fra Ludovico di Pietralunga degli affreschi di Puccio Capanna nella basilica di Assisi. Da queste si ricava che il dipinto riproduceva una complicata allegoria delle Stimmate di san Francesco, con sopra "un crucifixo con ale 2" e sotto "un San Francesco con le braccia et manto largho", e ai piedi "circa 40 busti, cioè teste di frati, sore, homini, femine, molti homini morlacchi".

In realtà il dipinto, benché incompiuto, era parte integrante del programma del transetto, insieme alle allegorie francescane dipinte da Giotto nella crociera. L'affresco restò in vista per oltre tre secoli e ne furono tratte copie in varie città dell'Umbria e della Toscana. Ce n'é una nella sacrestia di Santa Croce a Firenze, dove si vede un san Francesco che leva le braccia a mostrare le stimmate in direzione di un Cristo crocifisso coperto dalle ali di un serafino.

 Quanto meno minaccioso questo serafino rispetto all'arcigno san Michele del Sermei: prova vivente della misericordia divina.

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