"Il San Francesco della Basilica superiore di Assisi"
Timothy Verdon
A. Il senso del programma
“La grazia di Dio, nostro salvatore, in questi ultimi tempi è apparsa nel suo servo Francesco...”.
Ecco - nelle prime parole della vita di san Francesco stilata nel 1260-1263 dal francescano Bonaventura di Bagnoreggio - la chiave di lettura del ciclo pittorico realizzato trent’anni dopo nella basilica dedicata al santo in Assisi. E’ una chiave cristologia; le parole di Bonaventura infatti rielaborano una frase neotestamentaria che allude all’ingresso di Cristo nella storia: “E’ apparsa…la grazia di Dio che porta salvezza a tutti gli uomini …” (Tito 2,11-12). Questa frase è particolarmente familiare ai cristiani perché apre una lettura che, dall’epoca paleocristiana fino a oggi, la Chiesa proclama nella liturgia di Natale.
Il teologo Bonaventura introduce Francesco cioè in stretto rapporto a Cristo, identificando la vita del santo con quella del Salvatore nato da Maria. Allo stesso modo il ciclo di affreschi, commissionato dall’Ordine (come già il testo bonaventuriano), nella città natale del santo e nella chiesa che accoglie i suoi resti mortali fa vedere la grazia divina “apparsa” nell’uomo ritenuto allora ‘alter Christus’, un altro Cristo: Francesco. Il ciclo di scene raffiguranti episodi della sua vita infatti illustra la narrazione di Bonaventura, e sotto ventisette dei ventotto affreschi sono ancora leggibili delle parafrasi dei relativi passi. Queste ‘didascalie’ verranno riportate (in traduzione italiana) nei futuri brevi articoli sui singoli affreschi, mentre nella discussione delle scene verranno citati brani più ampli.
Il testo di Bonaventura è composto di quindici capitoli biografici con altri dieci narranti i miracoli di Francesco; accettato ufficialmente al Capitolo generale dell’Ordine a Pisa nel 1263, fu chiamato Legenda maior, “Leggenda maggiore”. Va ricordato che nel latino medievale il termine ‘legenda’ non aveva il senso che questo vocabolo ha assunto nelle lingue moderne – di ‘leggendario’, ‘fittizio’, ‘fantastico’ - ma conservava il significato letterale del verbo ‘leggere’, implicando - nella forma gerundiale – una necessità, quasi un obbligo: ‘qualcosa che si deve assolutamente leggere’. Nello stesso modo anche il ciclo d’affreschi nella basilica superiore si presenta come ‘qualcosa che si deve assolutamente vedere’ per conoscere san Francesco.
B. Il senso cristologico della prima arte francescana
Oltre alla Legenda maior, due altri testi illuminano le scene della vita del santo: l’Antico e il Nuovo Testamento. Sulle stesse pareti dove i ventotto affreschi narranti Francesco si sviluppano nel registro inferiore, vi sono altri due registri d’immagini nelle zone alte, con soggetti veterotestamentari sul versante nord, e sul versante sud altri, tratti dai Vangeli cristiani. Questo grandioso programma scritturistico, eseguito prima del sottostante ciclo relativo a Francesco, invita a vedere l’intera vita del santo come un’estensione moderna della historia salutis biblica, e alcune delle ventotto scene riguardanti Francesco infatti lo collegano con personaggi dell’Antico Testamento o con Cristo in persona, come verrà accennato nei commenti ai singoli affreschi.
Fu soprattutto l’identificazione di Francesco con Cristo che l’Ordine voleva comunicare nel ciclo della basilica superiore—sottolineatura, questa, già implicita in immagini realizzate in ambito francescano sin dagli inizi dell’Ordine. Nella tavola firmata dal maestro lucchese Bonaventura Berlinghiero e datata 1235, ad esempio – un’opera eseguita appena nove anni dopo la morte del santo e conservata a Pescia -, la ieraticità del personaggio e il modo in cui questi saluta, mostrando nella mano destra la ferita delle stimmate, configurano un’icona palesemente ‘cristica’. In una tavola di un quarto secolo più tardi, poi - la cosiddetta Pala Bardi in Santa Croce a Firenze -, l’identificazione col Salvatore viene ulteriormente esaltata dal fatto che la mano destra di Francesco non saluta ma benedice, evocando l’immagine del Cristo sacerdote offertosi sull’altare della croce. In Francesco stigmatizzato i francescani infatti vedevano fisicamente realizzato il mistico asserto di san Paolo: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal2,20).
Cristo vive in me: in questi due esempi della nascente iconografia francescana, oltre alla ieratica figura di Francesco che saluta o benedice vi sono anche piccole scene narranti episodi biografici, come per insistere che Cristo era presente nel santo non solo alla fine del percorso ma anche nei singoli momenti del suo vissuto umano. Confrontando la pala del 1235 e quella d’intorno al 1260, riscontriamo un notevole rafforzamento dell’elemento biografico: da appena sei, le scene della vita di Francesco diventano venti! Il nuovo interesse nella vita del santo sarà alla base del ciclo della basilica superiore.
C. Lo stile francescano
Se guardiamo le primitive raffigurazioni di San Francesco corredate di scene della sua vita, è chiaro che non viene sempre rispettato l’ordine cronologico degli eventi. La cronologia non era considerata un’esigenza assoluta, infatti, e anche nella Legenda maior Bonaventura dichiara di non aver “sempre intrecciato la storia secondo l’ordine cronologico”, preferendo a volte “una disposizione più adatta a mettere in risalto la concatenazione dei fatti”. La medesima libertà traspare anche nell’ordinamento del ciclo d’affreschi narrante san Francesco nella basilica superiore.
Sia negli scritti che nelle immagini che raccontano Francesco, l’intenzione dell’Ordine non era solo quello di presentare “i fatti”, bensì di tradurre in parole e immagini qualcosa della vibrante umanità di quest’uomo straordinario. A tale scopo gli scrittori francescani inventarono uno stile popolare ma di raffinata penetrazione psicologica: ancor prima della Legenda bonaventuriana le due Vite del santo stilate da fra Tommaso da Celano testimoniano a questo nuovo stile letterario. Un analogo indirizzo è evidente nella pittura realizzata per l’Ordine, ma non in primo luogo nelle raffigurazioni di Francesco, che per molto tempo rimasero legate a stilemi bizantini. In ambito francescano l’impeto umanizzante che in seguito trasformerà l’arte europea si riscontra piuttosto nella raffigurazione di Cristo, e soprattutto del Cristo sofferente. Se mettiamo a confronto, ad esempio, l’arcaica croce dipinta davanti a cui Francesco aveva pregato nella chiesa di San Damiano, e la croce realizzata per una chiesa dell’Ordine intorno a 1260, oggi a Perugia, le differenze concettuali e stilistiche parlano da sé. La croce di San Damiano, databile alla metà del XII secolo, presenta un Cristo impervio al dolore e con gli occhi aperti: il Christus triumphans della tradizione paleocristiana. L’opera moderna lo presenta invece sofferente, un Christus patiens con ai suoi piedi figure di Francesco e di un altro frate che lo adorano. “Culli suoi signi remanisti, tanto el portasti in core!” dirà un coevo poeta a Francesco, alludendo alle stimmate, e qui l’immagine ha un’analoga ambizione: vuole segnare il cuore di chi la guarda con una ferita, come Francesco era ‘segnato’.
D. L’umanità di Francesco e la nuova arte
E’ questa esigenza di trasmettere il sentimento provato dal santo che cambia il linguaggio dell’arte francescana. Mentre nella vecchia croce di San Damiano Cristo rimane una figura sagomata e senza plasticità, con muscoli delineati in modo convenzionale, in quella fatta intorno al 1260 per i frati acquista vero peso corporeo, grazie a una muscolatura tridimensionale modellata nella luce. Tale effetto è ancora più pronunciato sul retro della croce dipinta conservata presso la Galleria Nazionale dell’Umbria a Perugia, dove uno straordinario Cristo flagellato echeggia la statuaria antica che, negli stessi anni 1260, lo scultore Nicola Pisano cominciava a citare. In questa figura poi la dimensione psicologica e quella fisiologica si fondono: l’uomo legato alla colonna alza la testa con un movimento fluido e credibile per guardare direttamente verso lo spettatore, quasi chiedesse comprensione e compassione. Il pittore è riuscito, cioè, a rappresentare Cristo come Francesco lo vedeva: non un personaggio sacrale ma un uomo di carne che interpella altri uomini in base alla comune affettività umana.
Queste precoci conquiste dell’arte francescana verranno portate a un nuovo livello d’eloquenza nel ciclo di affreschi della basilica superiore, dove l’umanità interattiva delle raffigurazioni di Cristo nella croce perugina diventerà la cifra ermeneutica sia del protagonista, Francesco, sia dei personaggi secondari. Il corpo del santo; il suo sguardo commosso; la sua crescita interiore nel quadro dei rapporti interpersonali; il rapporto specifico di Francesco con Cristo e la sua graduale ‘conformazione’ a Lui: ecco i fili conduttori tematici che danno unità visiva e drammatica alle ventotto scene sistemate lungo le pareti della navata, nel registro pittorico più vicino ai fedeli.
E. Temi unificanti nel ciclo pittorico di Assisi
Nel celebre ciclo giottesco della Basilica Superiore ci sono alcuni importanti temi unificanti, di cui forse il primo è l’enfasi su una spazialità ‘scenica’. Nell’epoca che reinventava in termini cristiani alcuni aspetti del drammaturgia antica, e nella principale chiesa di un Ordine che già si serviva del dramma sacro nella sua missione, non stupisce che ognuno degli affreschi della Vita di Francesco si presenti come un ‘palco’ di limitata profondità, chiuso sullo sfondo da costruzioni sceniche spesso abitabili. Questi palchi sono poi incorniciati da finta architettura classica di notevole eleganza, proiettata in prospettiva con perfino una tettoia a cassettoni. Così per chi, camminando, seguiva la sequenza narrativa, l’effetto era analogo a quello dei grandi palchi medievali allestiti su più lati di una piazza, con distinte aree segnati da ‘mansiones’ e ‘edifizi’ per le successive scene del dramma.
Questa straordinaria novità, la coerente e continuativa spazialità scenica, è collegata alla forte enfasi corporea e psicologica del ciclo. Infatti, se Francesco ha un vero corpo e veri sentimenti è chiaro che deve avere anche veri spazi in cui muoversi. Così, come la coeva scultura stava riattivando modelli classici al servizio della corporeità, questi affreschi attingono a prototipi pittorici d’epoca imperiale sia per le conoscenze prospettiche, sia per alcune delle specifiche costruzioni sceniche. Altre delle costruzioni raffigurate – la maggior parte in verità – suggeriscono invece un intenso interesse per l’architettura moderna: in numerose scene appaiono ad esempio eleganti esterni ed interni gotici, e nello stupendo Presepe di Greccio tale ‘realismo edilizio’ viene esteso perfino al mobilio ecclesiastico—all’ambone, al tramezzo divisorio, all’elegante ciborio. Anche il badalone (leggio) con l’elenco dei canti appeso al lato, e la parte tergale della grande croce sul tramezzo, con la sua armatura lignea accuratamente delineata. Vengono descritti addirittura il congegno che permetteva di alzare o abbassare il leggio e il supporto che teneva inclinata la croce verso la navata—come se la nascita del Figlio di Dio che Francesco drammatizza col presepe avesse conferito nuova dignità a ogni cosa materiale – a ogni oggetto, a ogni arnese -, dal momento che ormai in Cristo sarebbe lo stesso Creatore a usare di queste cose.
F. Il mondo naturale negli affreschi di Assisi
Anche il paesaggio e gli animali diventano temi nel ciclo dedicato al santo amante della natura—a Francesco, che comandava al lupo e predicava agli uccelli. Va notata una cosa bellissima e del tutto nuova: le due scene ubicate interamente nella natura, Il miracolo della sorgente e La predica agli uccelli, sono sistemate una accanto all’altra sulla facciata interna, a sinistra e a destra dell’ingresso. L’abbinamento non può essere casuale, perché si tratta di episodi fuori sequenza—distanti l’uno dall’altro nella Legenda maior, come sono distanti dagli episodi che li precedono e seguono nel ciclo pittorico. Perché allora inserire le sole due scene prive di costruzioni architettoniche nella controfacciata? Credo che la ragione è soprattutto emotiva: chi dall’altare guarda verso l’ingresso ha l’impressione che il muro di fondo-chiesa non c’è—che la basilica si sia aperta cioè al cosmo. Le scene sopra questi affreschi, l’Ascensione di Cristo e la Pentecoste, hanno vaste distese di cielo aperto, le quali – insieme ai due paesaggi sottostanti – in pratica dissolvono la controfacciata, offrendo un’estatica visione dei mondo naturale. L’effetto doveva essere specialmente forte quando le grandi porte di facciata erano aperte sul prato antistante la chiesa.
Tutte e due le scene in controfacciata sono celebri, ma l’amore di Francesco per le creature ha fatto della Predica agli uccelli l’immagine-emblema del santuario. In questo affresco poi è particolarmente chiaro il carattere del nuovo stile pittorico. La stessa scena appare nella basilica inferiore, in un affresco degli anni 1250 (fig. 9), dove però le forme corporee umane sono piatte e convenzionali e solo gli uccelli sembrano vivi! Quarant’anni dopo, nell’affresco della controfacciata, Francesco e il suo compagno hanno solidità fisica e fluidità di movimento; le pieghe delle loro vesti modellano i corpi, gli alberi hanno credibili tronchi e rami, e gli uccelli stessi, più numerosi, hanno quasi personalità: sembrano accalcarsi per ascoltare attentamente le parole del santo.
G. L’influsso dei frati sugli gli artisti
Negli affreschi di Assisi i frati appaiono come discepoli, compagni, testimoni e eredi del Poverello, e lo spettatore intuisce che una delle funzioni del ciclo pittorico è proprio quella di esaltare, insieme al santo fondatore, l’intero Ordine francescano. I frati erano in effetti i committenti e primi destinatari degli affreschi, come anche della Legenda bonaventuriana, la cui frase d’apertura intera è: “La grazia di Dio, nostro salvatore, in questi ultimi tempi è apparsa nel suo servo Francesco, a tutti coloro che sono veramente umili e veramente amici della santa povertà”.
“Amici della santa povertà”: l’allusione è anzitutto ai seguaci del santo che aveva preso in sposa la ‘santa povertà’. Così, quando Bonaventura spiega la naturalezza del proprio modo di narrare gli eventi, dicendo: “ho ritenuto di non preoccuparmi della ricercatezza dello stile, giacché la devozione del lettore trae maggior profitto da un linguaggio semplice che da uno pomposo”, sta parlando di un’opzione per la “santa povertà”. E questa sua confessione letteraria fornisce una chiave anche al naturalismo pittorico degli affreschi realizzati in base al suo testo. E’ ovvio, infatti, che l’influsso letterario della Legenda maior e la frequentazione dei frati hanno trasmesso la medesima preferenza di “un linguaggio semplice” atto a suscitare fervore anche ai pittori laici che, negli anni 1290, realizzarono gli affreschi. In questo senso, lo stile pittorico da loro inventato può e deve essere considerato francescano.
Chi erano, questi pittori? Lo storico Giorgio Vasari, scrivendo alla metà del XVI secolo, dice che il fiorentino Giotto di Bondone fu “chiamato da fra Giovanni di Muro della Marca, allora generale de’ frati di san Francesco” a dipingere l’intero ciclo “nella chiesa di sopra…sotto il corridore che attraversa le finestre, dai due lati della chiesa”. Quest’affermazione, certamente basata su tradizioni orali più antiche, non solo non esclude ma addirittura presuppone la collaborazione di altri maestri, e infatti anche l’occhio inesperto percepisce tra scena e scena diversità stilistiche tali da far pensare a più mani esecutive. Ma l’altrettanto evidente unità concettuale del ciclo lascia supporre che a capo di quest’equipe ci fu un unico ideatore e direttore dei lavori. Oggi, dopo anni di accesi dibattiti, la maggior parte degli studiosi torna a identificare l’artista principale del ciclo assisiate nel maestro nominato da Vasari, Giotto di Bondone. I non pochi tentativi di mettere in dubbio quest’attribuzione infatti non hanno retto la prolungata valutazione della critica.
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