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“Dio creò l'uomo a sua immagine”

Redazione
Pubblicato il 30-11--0001

Testo di Gianfranco Ravasi



Eccoci, allora, di fronte alla prima via analogica “figurativa”, quella delle creature in sé assunte come modello estetico. La “gloria” - kabôd in ebraico denota la stessa essenza intima divina nel suo svelarsi epifanico - è intuibile nel riflesso creaturale, come si canta nel Salmo 19:
“I cieli narrano la gloria di Dio, l'opera delle sue mani annuncia il firmamento…, senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce” (vv. 2.4). Non è una narrazione verbale, bensì un racconto figurato cosmico. Ma c'è una creatura che espleta in modo capitale l'analogia figurativa divina ed è la coppia umana. E' illustrato in modo efficace in un versetto della Genesi (1,27) che, già nella sua configurazione stilistica fondata sul tipico parallelismo esplicativo semantico, delinea la funzione iconologica teologica dell'essere umano nella sua realtà bipolare sessuale:
“Dio creò l'uomo / a sua immagine, a immagine di Dio/ lo creò maschio e femmina/ li creò”. È evidente, anche graficamente, che l”immagine” divina, in ebraico celem, nella versione greca eikòn, ha il suo sorprendente parallelo esplicativo in “maschio e femmina”. Dio va allora rappresentato come sessuato e accanto a lui si deve porre una dea come l'Astarte o l'Asherah idolatrica dei popoli vicini di Israele? Ovviamente la risposta è negativa. L'”immagine” divina, d'altronde, non è neppure da cercare affìdandoci alla tradizionale linea spiritualista, ovvero, come scriveva Agostino nella Genesi alla lettera, “l'uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio soprattutto per quanto riguarda l'anima”. L' “immagine” divina stampata nell'uomo e nella donna sta nella loro capacità generativa: essa è la rappresentazione più “somigliante” (1,26) del Dio Creatore: non per nulla la storia della salvezza successiva sarà delineata dalla “Tradizione Sacerdotale” della Genesi sulla base delle genealogie. Interessante è notare la calibratura che viene effettuata dall'aurore sacro su questa rappresentabilità iconica divina nella creatura umana. Nel precedente versetto si legge: “Facciamo l'uomo a nostra immagine (selem), a nostra somiglianza (demût)” (1,26). Ebbene, il primo termine adottato dall'aurore è selem: esso denota una vicinanza reale rispetto al soggetto rappresentato, una “verità” figurativa, una sorta di divina “immanenza” epifanica nella creatura umana. L'altro vocabolo, invece, demût, suggerisce una certa distanza nel rapporto di similitudine, una specie di astrazione che è insita anche nella desinenza – ût, propria dei vocaboli ebraici astratti; si vuole, perciò, ribadire che resta una distanza, dovuta alla trascendenza del soggetto rappresentabile. La figura umana, quindi, è un'efficace e reale icona di Dio, ma non ne esaurisce la realtà piena. Si abbozza così, in modo semplificato ma genuino, il concetto di simbolo che l'arte dovrà sempre custodire. È possibile dipingere o scolpire Dio sulla scia del modello che egli ci ha offerto, la creatura umana. Ma al tempo stesso si proclama l'irriducibilità della divinità a un modello rappresentativo totalizzante, lasciando sempre aperta la distanza dell'infinito e dell'eterno.

fonte: Luoghi dell'Infinito

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