Sulle orme dei “giullari di Dio”
L'ottavo centenario della proto-regola francescana (1209-2009), momento fondativo dell'Ordine, offre lo spunto per risalire alle origini stesse della musica in lingua italiana, tradizionalmente associate alla composizione del Cantico di frate sole e al forte impatto ‘mediatico' che esso ebbe sulla popolazione del tempo, aprendo la strada a una forma molto particolare di predicazione. Ciò ha permesso di far luce sull'attività di un gruppo di frati-giullari vicini al Poverello di Assisi e al loro singolare repertorio, identificato in alcune fonti della lauda arcaica.
L'uso del canto come espressione immediata e vibrante della spiritualità francescana sembra essere maturato in seno alle tradizioni dell'Ordine sull'esempio stesso del Fondatore, il quale - è il suo primo biografo Tommaso da Celano a raccontarlo - «quando la dolcissima melodia dello spirito gli ferveva nel petto si manifestava all'esterno con parole francesi e la vena dell'ispirazione divina, che il suo orecchio percepiva furtivamente, traboccava in giubilo alla maniera giullaresca. Talora - come ho visto con i miei occhi - raccoglieva un legno da terra e, mentre lo teneva sul braccio sinistro, con la destra vi passava sopra un archetto tenuto ricurvo da un filo, accompagnandosi con movimenti adatti come se fosse una viella e cantava in francese le lodi del Signore» (Vita Seconda, XC).
Ma questa elevata forma di contemplazione riuscì ben presto a tradursi, nelle stesse intenzioni di san Francesco, in un preciso indirizzo predicatorio. Ne fa fede proprio l'indole giullaresca attribuitagli dalle fonti, la quale, molto più che un semplice tratto agiografico, fu un efficace strumento divulgativo della Parola di Dio. Fin dalle origini, infatti, la condizione di povertà e mendicità fissata dalla Regola aveva proiettato l'azione evangelizzatrice dell'ordine francescano in quegli ambienti in cui l'esperienza del peccato era diretta e quotidiana. Di questa società, vista dal basso, la tradizione giullaresca era da sempre osservatorio privilegiato e interprete accattivante, suscitando sospetti e condanne da parte delle autorità religiose, le quali giungevano a equipararla, senza mezzi termini, alla prostituzione. Proprio grazie a Francesco la figura del giullare fu invece riscattata e portata a nuova dignità, divenendo addirittura il modello di un nuovo stile comunicativo, destinato a soppiantare le complesse ritualità della devozione “ufficiale” – spesso radicalmente precluse alla comprensione dei fedeli – attraverso l'adozione di mezzi espressivi di gusto popolare e l'uso canonico di quella lingua volgare dalla quale germoglierà presto il seme di una nuova cultura.
Decisivo in tal senso dovette essere l'incontro, avvenuto presso San Severino Marche, con Guglielmo Divini da Lisciano d'Ascoli, il quale «era chiamato “il Re dei versi” perché era il più rinomato dei cantori frivoli ed egli stesso autore di canzoni mondane. In breve, la gloria del mondo lo aveva talmente reso famoso che era stato incoronato dall'Imperatore nel modo più sfarzoso» (Vita Seconda, LXXII). Al giullare, «gentilissimo maestro di canto», divenuto dopo la conversione uno dei più fedeli collaboratori del santo sotto il nome di frate Pacifico, Francesco, dopo aver composto parole e musica (quest'ultima purtroppo perduta) del Cantico di frate Sole, chiese di insegnarlo ad «alcuni frati buoni e spirituali affinché andassero per il mondo a predicare e lodare Dio. Voleva che dapprima uno di essi, capace di predicare, rivolgesse al popolo un sermone, finito il quale tutti insieme cantassero le Laudi del Signore come giullari di Dio. Quando fossero terminate le laudi, il predicatore doveva dire al popolo: “Noi siamo i giullari del Signore e la ricompensa che desideriamo da voi è questa: che viviate nella vera penitenza”» (Legenda perusina, XLIII).
Queste parole, che dovettero scandire, fin da quando il santo era in vita, i ritmi della predicazione francescana, ricorrono suggestivamente in una lauda del codice Banco Rari 18 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze («A voi gente facciam prego / che stiate in penitenzia»), documentando l'esistenza di un vero e proprio repertorio religioso di ambito giullaresco recepito – su un binario parallelo a quello della tradizione orale – nei laudari del Due-Trecento e opportunamente adattato alle esigenze celebrative o devozionali delle confraternite depositarie. È il caso di Alleluia, alleluia, alto re di gloria, tramandata dalla medesima fonte, probabile sopravvivenza del celebre Alleluia eletto dagli storici a leit-motiv dei fermenti religiosi propagatisi in tutta Italia nel 1233. Il brano è accuratamente descritto da Salimbene da Parma nella performance di un frate Benedetto “della Cornetta”, «oriundo della valle spoletana o dei dintorni di Roma» e «molto amico dei frati minori», che con la sua piccola tromba di bronzo alla maniera di un araldo, intonava in ogni piazza le lodi dell'Altissimo: «Diceva in volgare: “Laudato et benedhetto et glorificato sia lo Patre!”. E i fanciulli ripetevano ad alta voce quell'invocazione. Poi ripeteva le stesse parole, aggiungendo: “sia lo Fijo!”, sempre riecheggiato dai fanciulli. Quindi ripeteva per la terza volta, aggiungendo: “sia lo Spiritu Sancto!”. E poi: “Alleluia, alleluia, alleluia”, e suonava la tromba» (Cronica, c. 237v).
Spesso la capacità persuasiva di questi messaggi si arricchiva di svariati elementi narrativi, trovando ideale supporto nella multiforme cultura delle immagini. Analogie col mondo della pittura sono ad esempio evidenti in Sia laudato san Francesco (la cui splendida melodia, utilizzata per la colonna sonora di Fratello Sole sorella Luna di Franco Zeffirelli, gode peraltro di notevole fortuna anche in tempi attuali), composizione di carattere sostanzialmente biografico strutturata per moduli, secondo un preciso rapporto strofa/episodio assimilabile alle scene delle grandi pale d'altare di Pescia o della Cappella Bardi a Firenze, o in Chi vuol lo mondo dispreçare, ove l'allegoria della morte trionfante, evocata da temi inquietanti e spettrali come quelli affrescati nel Camposanto di Pisa, doveva tradursi, fors'anche sul piano rappresentativo, in spettacoli di grande violenza simbolica e di forte impatto emotivo.
Il graduale passaggio dell'espressione laudistica da una fase più individuale e rapsodica, propria dei predicatori-giullari, a una prevalentemente di tipo collettivo e organizzato maturò nella seconda metà del secolo con l'avvento delle confraternite. Uno dei momenti più significativi al riguardo può fissarsi al 1260, allorché sotto l'impulso dell'eremita Ranieri Fasani – fustigatosi pubblicamente dinanzi al vescovo e al popolo di Perugia per denunciare l'urgenza, nella società, di un nuovo ordine morale – nacque il movimento dei “flagellanti”, diffondendo ovunque l'uso di processioni espiatorie in cui uomini nudi, senza distinzione di rango o di età, «componevano lodi divine ad onore di Dio e della beata Vergine e le cantavano mentre camminavano flagellandosi» (Salimbene, Cronica, c. 404r). Di queste lodi almeno una risulta essere giunta sino a noi. Si tratta di Madonna santa Maria, tramandata dal Laudario di Cortona, brano dall'incedere mesto e dolente, la cui strofa iniziale coincide alla lettera con il canto dei penitenti perugini trascritto nei latini Annales Ianuenses da Bartolomeo Scriba: «Domina sancta Maria, recipite peccatores, et rogetis Iesum Christum ut nobis parcere debeat».
Francesco Zimei
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