Il frate clown di Dio
Nomade di Dio. Così ama sentirsi
e presentarsi, un cappuccino
che per anni si è messo in
pista, sotto i tendoni del circo.
Fra Giuseppe Rosati, nato a
Spoleto nel 1955, ha sentito la
vocazione al saio a vent’anni ed
è diventato sacerdote nel 1985.
È un lottatore ed è costantemente
alla ricerca di qualcosa
che lo appassioni sulla via della
preghiera, della ricerca dell’Assoluto.
Si dichiara fortunato per aver
potuto vivere l’esperienza d’essere
parroco di una parrocchia
molto particolare, che si muove
di continuo con le sue carovane:
il mondo del circo. Ora,
dopo molti anni passati con la
gente del circo, dilettandosi
nel fare il clown, è rimasto amico
spirituale di alcune famiglie
circensi. Quando ha qualche
giorno di vacanza, torna fra
«la sua gente», come gli piace
chiamarla. Adesso vive nel convento
cappuccino di Città di
Castello.
Perché un frate al circo? Che ci
fa? Cosa porta?
Quando scelsi di diventar frate,
io sono una vocazione adulta,
vengo da una crisi politica
che mi ha portato alla ricerca
di un ideale di vita, dopo un
certo cammino ho incontrato
un frate cappuccino e decisi di
mettere la mia vita a disposizione
degli altri. Credo di portare
in me una parte di esperienza
contemplativa e quella di servizio
ai poveri, il binomio privilegiato
di Francesco. Momenti
forti di vita di preghiera e di
vita tra la gente. Quand’ero
nel post noviziato, parlando
della presenza dei Cappuccini
nei vari campi, emerse anche il
discorso delle minoranze. Perciò
decisi di essere lì, dove non
c’era un sacerdote. Per una
certa mia simpatia dell’infanzia
legata al mondo del circo,
mi candidai ad avvicinare questa
gente, mentre mi preparavo
al sacerdozio. Il Padre maestro
mi incoraggiò. Per me era una
novità, come lo era per la Chiesa,
per i frati. Era inconsueto
vedere un frate che andava verso
le carovane dei circhi.
A quando risale il primo approccio?
Agli anni 1976-1977. Ma fu nel
1979 che avvenne la mia prima
entrata in una roulotte. Agli
esordi mi avvicinavo come amico.
Un giorno, in una roulotte
del circo di Nando Orfei, vidi
che sopra la porta dell’ufficio
era stata collocata l’immagine
di un francescano, padre Bruno.
Mi raccontarono che questo
frate, durante l’estate, prendeva
le sue vacanze per stare
con loro. Amministrava i sacramenti,
insegnava il catechismo
e poi tornava in convento. Una
volta, mentre si recava al circo,
ebbe un incidente mortale. Avvertii
la necessità di prendere
quel testimone e fare staffetta.
Chiesi di andare al circo e me
ne fu data subito la possibilità.
Ci andai: e per una settimana
feci vita in comune con loro,
mangiando, dormendo con
quella eterogenea famiglia.
Non è facile. Finché vai a vedere
il circo per uno spettacolo è
bello, perché ti accende la fantasia,
ti fa sognare. Però viverci
la vita di tutti i giorni è difficile.
Ho voluto condividere quella
vita, per parecchi anni sono
stato il frate operaio del circo:
montavo, smontavo, andavo a
prendere la segatura, davo i biglietti,
attaccavo i manifesti.
Poi ci fu un giorno che…
Sì, un giorno speciale e indimenticabile
in cui entrai in
pista come clown e lì fu un’esperienza
forte, a Foligno, con
il circo di Cesare Togni. Ebbi
poi l’aiuto di un’altra scuola,
Flavio Colombaioni, e grazie
a lui mi confrontai con l’arena,
perché se vuoi fare il clown
devi passare per l’arena. Per
quasi vent’anni mi sono dilettato
a fare il clown, diventando
il “Frate Clown”, andando ripetutamente
nelle trasmissioni di
Maurizio Costanzo. È stato un
tempo bellissimo, indimenticabile.
L’altro settore in cui
mi sono avventurato è quello
più propriamente pastorale.
Quando divenni sacerdote, in
un circo mi chiesero: perché
non prepari i nostri bambini
alla Prima comunione? Da lì
iniziai il ministero sacerdotale,
portando i sacramenti dentro il
circo. Sono arrivato a conoscere
cinquanta circhi italiani. Mi
sono fermato, un po’ per l’età,
un po’ per i notevoli cambiamenti
intervenuti. I circhi sono
diventati grandi. Molta gente
non sa come vivono gli abitanti
del circo. È una cultura. Bisogna
conoscerli bene, prima di
giudicarli. Ai ragazzi mi piaceva
e mi piace ripetere quando
ne ho l’occasione una frase di
Nando Orfei: «I circensi sono
atleti senza medaglia».
È difficile portare l’annuncio
in questa parrocchia molto speciale
che è un circo, con un’identità
in continuo movimento
e comunque con un’identità
precisa?
Non ho incontrato difficoltà,
prima però i circensi devono
capire bene chi sei. Bisogna
guadagnarsi la fiducia. Un conto
è l’andare al circo per fare
catechismo, per celebrarvi la
messa. Altro è viver lì dentro.
Dobbiamo ritrovare il tempo,
parlare delle cose della vita,
dello spirito, della preghiera,
dei valori, dell’eternità. Dobbiamo
saper dare risposte concrete,
aiutarli nella lettura della
Parola di Dio.
Qual è la fatica di vivere più
acuta che ha percepito sotto i
tendoni?
Questa gente, ancora oggi, non
viene accettata per quello che
è. La cultura circense non è accettata
e non passa. Spesso avvertito
è il rischio dello scoraggiamento:
sudare per un giorno
e mezzo a disporre il circo
e poi alla sera non vedere nessuno…
Non dimentichiamo la
burocrazia infinita dello Stato
per la luce, l’acqua, l’uso della
piazza. La crisi sta mettendo in
ginocchio molti piccoli circhi.
Da loro ho imparato il sacrificio,
la costanza, la caparbietà.
Il loro mantra è: lo spettacolo
continua...
Come si può tentare di mettere
a fuoco l’identità della gente
del circo?
È un popolo libero e io, vivendo
con loro, provo l’esperienza
della libertà. Attraverso l’arte,
lo spettacolo, la fisicità, i circensi
trasmettono gioia, entusiasmo,
divertimento, l’esperienza
della vita come viaggio,
pellegrinaggio; sono portatori
di una cultura antica e nuova,
in continua evoluzione. Io posso
dire, personalmente, che i
frati mi hanno fatto sacerdote,
il circo mi ha aiutato a rimanere
sacerdote umano. Chi
incontra questa gente, percepisce
subito il calore avvolgente
dell’umanità. Certi gesti che
fanno i circensi nella vita quotidiana
mi lasciano ammirato e
senza parole. Conosco dei ragazzi
che io chiamo non a caso
«i miei san Francesco».
C’è un santo protettore dei circhi?
Quando partii entusiasta per la
mia avventura nel mondo del
circo, avevo preso con me alcune
immaginette di san Francesco,
che è un’icona dei nomadi.
La sua vita era camminare,
ogni giorno si recava almeno
in tre paesi. Volevo perciò proporlo
come santo dei circensi.
I quali però mi fecero presente
che il loro santo ce l’avevano
già, san Giovanni Bosco, perché
faceva il saltimbanco per
portare i giovani in chiesa.
Si va al circo in cerca di evasione,
forse per ridiventare un
po’ bambini, per afferrare uno
spicchio di felicità. È possibile?
Sono moltissimi coloro che
vanno al circo con i bambini,
per regalar loro due ore di un
mondo magico, fatato. Tutti si
aspettano uno spettacolo bello,
che li faccia divertire; se lo
spettacolo non risponde alle
esigenze del pubblico, escono
rattristati. Se lo spettacolo è
bello e risponde alle loro esigenze,
eccoli uscire sereni e
rilassati.
Che idea s’è fatto di felicità?
La felicità è quando tu riesci a
stare in equilibrio con il sentimento
e la ragione, è quando
tu ami Dio e ami te stesso e gli
altri. La felicità è possibile se
riusciamo a rimettere l’interiorità
al centro della nostra vita.
Noi dobbiamo trovare il tesoro
dentro lo scrigno. Di sicuro
non danno felicità il vuoto
dell’anima, l’assenza della presenza
dello spirito nell’uomo,
i molti surrogati del consumismo.
Qual è lo sfregio più grave nei
confronti dell’uomo, in questo
tempo?
Manca il rispetto dell’uomo
verso l’uomo e verso il Creato.
I nostri mali sono l’individualismo,
l’egoismo, l’eclissi
di Dio. Vediamo bene quanta
indifferenza ci circonda, il deserto
di solitudine che ci cresce
attorno. Se è vero che il cosmo
è rappresentato in un microcosmo
dentro di noi, l’uomo
sta distruggendo questo microcosmo.
Papa Francesco ci ha
ammonito: stiamo diventando
cibo avariato, ci stiamo auto distruggendo.
Il denaro sta accecando
l’uomo.Giuseppe Zois - Vita Cattolica
INTERVISTA DEL 2004 PER DIOCESI DI TERNI
Spesso si parla del circo in relazione ai problemi degli animali.
Oggi va di moda pensare più agli animali che agli uomini. Siamo più contenti di dare kit kat ai gatti che un pasto caldo ai barboni. Io proprio per parlare del rapporto del circo con gli animali sono addirittura entrato nella gabbia di una tigre. Un esperienza unica, ma bellissima. Ora non mi occupo molto di aiutarli da questo punto di vista, perché ci sono degli enti che lo fanno. Io sono un frate, non un sindacalista. Sto con loro e penso alle persone aiutandole ad affrontare queste avversità e cerco, se posso faccio qualcosa. Ma sono pochi a difendere quest'arte. Nel circo non ci sono solo gli animali, ci sono artisti.
Ti sei mani scontrato con dei dimostranti?
"Mi è successo di essere presente un giorno in cui c'era una manifestazone contro il circo. Gli ambientalisti volevano convincere la gente a non entrare, alla fine io li ho convinti ad entrare, e per ringraziarli sono entrato nella gabbia".
Ma non si può fare un circo senza animali?
"Certo, ce ne sono anche. Ma perché un circo deve rinunciare agli animali solo per assecondare un gruppo di persone che vogliono imporre le loro idee agli altri, abbandonando animali che sono nati dentro il circo stesso? Non voglio entrare in polemica ma perché si parla tanto degli animali del circo e non ci si interessa di tanti animali che nascono e muoiono in gabbie strettissime per farci mangiare il pollo o la bistecca, perché al povero maiale o alla povera gallina nessuno ci pensa. Comunque io penso semplicemente che come loro sono liberi di esprimere le loro idee devono lasciare liberi gli altri di fare le proprie scelte. Io ho visto tante cose gravi: piazze sporche, bambini che giocavano con oggetti pericolosi. Ma di queste non si parla. Beh, io mi occupo degli uomini, prima che degli animali".
Però Francesco amava molto gli animali...
"Non era Francesco che andava dagli animali, erano gli animali che andavano da lui! Francesco è andato dal lebbroso, e poi dagli animali. Non mi piace chi cerca di strumentalizzarlo in questo senso. Francesco ha guardato prima al fratello".
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