religione

I francescani restituiscono al Sultano la centralità nell’incontro con San Francesco

RICCARDO CRISTIANO Vatican Insider
Pubblicato il 14-04-2019

Gli ottocento anni dall’incontro tra San Francesco e il Sultano al Malik al-Kamil sono stati l’occasione di tantissimi incontri, anche celebrativi, di una pagina tra le più importanti della storia delle relazioni islamo-cristiane. La Pontificia Università Antonianum ha voluto unire la riflessione storico-teologica su quell’incontro e sulle radici spirituali e mistiche dell’accoglienza con una serie di testimonianze sull’oggi così poco accogliente.

 

Un tentativo riuscitissimo anche per la portata, chiarezza e forza della relazione con cui il professor Marco Guida, francescano dell’Antonianum, ha avviato la discussione su cosa realmente accadde ottocento anni fa. Il suo racconto ha presentato la problematicità del cammino di San Francesco: non fu né facile né agevole arrivare al cospetto del Sultano. Ma lì, coadiuvato dalle diapositive delle fonti citate, il professor Guida ha voluto presentare il vero protagonista dell’incontro: il Sultano. La prima edizione dell’opera fondamentale del biografo di San Francesco, Tommaso da Celano, rende evidente che è lui che ha influito con la sua ospitalità sul poverello d’Assisi.

Punto cruciale di un racconto che troppo spesso è stato messo da parte perché non funzionale, il professor Guida ha affermato che il protagonista fu al Malik al Kamil per come accolse Francesco, riempiendolo di doni, apprezzando la stessa scelta di rinunciare a molti di essi, arrivando a curare l’ospite che si era ammalato. «Dobbiamo demitizzare Francesco», ha concluso il professor Guida, legando questa necessità alla comprensione di quanto importante sia stata l’ospitalità per lo stesso Francesco.

 

In sala altri studiosi dell’incontro hanno convenuto, sottolineando che l’intento del santo di Assisi con ogni probabilità era semplicemente un viaggio sul modello di quelli di San Paolo. Fu il Sultano a sorprenderlo, ha commentato un altro studioso triestino, arrivando a preoccuparsi della sicurezza del suo ritorno, con quei doni simbolici e capaci di metterlo al riparo da ogni malintenzionato lungo tutta la via del ritorno, quasi dei salvacondotti.

 

Più tardi, quando si sono avviate a conclusione le testimonianze sull’ospitalità oggi, Abdulaziz Shady, della Lega Musulmana Mondiale, ha voluto ringraziare il professor Guida per la forza e chiarezza delle sue parole nell’oscuro contesto odierno. Un ringraziamento da essere umano, ha detto, ma anche da musulmano che ha deciso di offrire la sua testimonianza di quale sia la forza dell’ospitalità ricordando il suo incontro con Papa Francesco: lui era l’interprete quando il Papa ricevette il segretario generale della Lega. Ma alla fine Francesco volle ringraziarlo espressamente per il suo lavoro fondamentale e quel grazie, rivolto proprio a lui, ha detto di ricordarlo ancora oggi, a tanto tempo di distanza, perché proprio inatteso.

 

La sezione delle testimonianze è stata aperta dal professor Paolo Naso, docente alla Sapienza e impegnato con l’Unione delle Chiese Evangeliche, anni fa nell’ideazione e oggi nella gestione dei corridoi umanitari, insieme alla Comunità di Sant’Egidio. Quanto i corridoi umanitari possano aiutare a fronteggiare un fenomeno drammatico come quello delle migrazioni che non trovano canali legali di arrivo in Europa è argomento noto e molto discusso. Meno che, come ha affermato il professor Naso, da soli non possano risolverlo. Così ha illustrato la triade a suo avviso indispensabile: accogliere, pacificare, cooperare.

 

Oltre all’accoglienza servirebbe anche impegnarsi per pacificare e poi cooperare. Vuol dire innanzitutto contribuire a porre termine ai conflitti dai quali tantissimi fuggono e poi aiutare a ricostruire un tessuto di vita indispensabile a rendere di nuovo vivibili i luoghi dai quali si fugge. «Chi oggi suggerisce di aiutarli a casa loro - ha proseguito- non tiene conto che casa loro non c’è più». È stata distrutta, è stata incendiata, è stata saccheggiata. E per spiegare questa lettura della realtà ha citato la poesia scritta da una donna giunta in Europa sui barconi. Un passaggio di questa poesia colpisce: «Nessuno mette il proprio bambino nell’acqua a meno che l’acqua sia diventata più sicura della terra».

 

Proprio questa poesia gli ha consentito di confrontarsi con la tesi dell’ “invasione”. Nel 2015, quando cioè le operazioni di soccorso resero più facile l’arrivo dei profughi sulle nostre coste, sbarcarono in Italia 163mila rifugiati. Tanti se visti in termini italiani, non proprio tanti se si tiene conto che il loro obiettivo e la la loro portata riguardava in quell’anno tutta l’Europa. Davvero una cifra del genere, fronteggiata e gestita in termini europei, avrebbe consentito di pensare o immaginare una “invasione”? Se è vero che gli immigrati sono storie oltre che numeri, per Naso è anche vero che quei numeri vanno letti tutti. Per esempio che da 7-8% della popolazione italiana gli immigrati producono l’11% del nostro Pil. Se improvvisamente sparissero, il nostro Prodotto Interno Lordo crollerebbe del 3-4%. «Tutto questo ci dice - ha concluso- perché le comunità di fede devono mettere a disposizione il loro patrimonio etico nello spazio pubblico».

 

Quindi è stata la volta di Rubén Terrablanca, frate minore, vicario apostolico di Istanbul. La sua testimonianza è partita dalle sue passeggiate per le strade di Istanbul, dove gli accade sovente di vedere le bancarelle dei mercati abbandonate con tutte le merci esposte: il commerciante è semplicemente andato a pregare, lasciando incustoditi tutti i suoi prodotti. L’ultima volta che lo ha notato, ha raccontato, si è soffermato a notare come nessuno intorno a lui fosse sorpreso. Il punto di arrivo della sua testimonianza è stato questo: l’accoglienza è «garantita dal popolo in quanto parte essenziale della cultura. Per capirlo bisogna conoscere, e la conoscenza crea rispetto e il rispetto porterà alla riconoscenza. Questa riconoscenza ci aiuterà a riconoscere che lo spirito ci precede nell’altro, e allora possiamo condividere».

 

 

 

Infine l’imam Nader Akkad ha voluto ricordare che nel Corano è scritto che quando Maometto invitò i suoi primi seguaci a mettersi in salvo, lo fece indicandogli di andare in un posto sicuro. «Quale? L’Etiopia, dove c’era un re cristiano, re giusto». Per lui la prima indicazione di una fratellanza da riconoscere. VATICAN INSIDER


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