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Un’operazione europea per fermare i naufragi

Goffredo Buccini Ansa Pasquale Claudio Montana Lampo
Pubblicato il 15-11-2020

Gravi i problemi che Ue e Italia hanno davanti a loro

Certe immagini cambiano la storia. Così è stato, nel 2015, con Alan Kurdi, il piccolo siriano annegato davanti alla spiaggia di Bodrum in quella sua maglietta rossa che divenne un simbolo. Angela Merkel decise che la Germania doveva aprire le porte, accogliendo un milione di fuggiaschi in pochi mesi: «Ce la faremo». Anche il cuore di molti europei si aprì, i profughi furono salutati a braccia spalancate: memorabili le scene nelle stazioni di Monaco, Vienna e Strasburgo, gli applausi di tedeschi e austriaci ai migranti che scendevano dai treni.

Il 2 gennaio 2016, la Bbc notò che il dramma di Alan «fu uno di quei momenti di cui l'intero pianeta sembra interessarsi». Per qualche tempo il piccolo profugo siriano ci costrinse a vedere nelle migrazioni un volto e un nome, anziché freddi numeri sui flussi, gli sbarchi, i naufragi. Poi ci pensarono come sempre gli attentati islamisti e le difficoltà economiche a spegnere ogni slancio. L'apertura costò a Merkel molti punti di consenso e l'avanzata dell'estrema destra in Germania. Sarebbe ingenuo prevedere oggi effetti simili in Europa a causa della morte in mare del piccolo Youssef (occidentalizzato in Joseph dai primi notiziari): sei mesi appena, fuggito con la mamma dalla Guinea per finire assiderato e ucciso da soccorsi tardivi nel Mediterraneo. L'ormai virale video di 28 secondi della giovane madre che urla «dov'è il mio bambino?» non smuoverà politici incartapecoriti nella difesa di confini scavalcati dal mondo globale o cittadini europei troppo spaventati dal Covid-19 e dalle sue disastrose conseguenze sulle loro vite per potersi interessare davvero alle vite degli altri. 

E tuttavia incarna problemi gravi con i quali Ue e Italia dovranno fare i conti, domata la pandemia che tutto oscura. Con una buona dose di cinismo, possiamo pure infischiarcene dell'avvertimento di Save the Children secondo cui «mamme anche giovanissime e spesso sole, neonati, bimbi piccoli continuano a cercare la salvezza in Europa, dopo aver vissuto condizioni di povertà estrema e violenze di ogni genere... e molti hanno perso e continueranno a perdere la vita nel Mediterraneo». Ma dobbiamo preoccuparci seriamente quando scopriamo che, da gennaio, «sono arrivati in Italia 3.850 minori non accompagnati, il 13% del totale degli arrivi». Dove finisce quest'esercito di ragazzini sbandati? In quale filiera di sfruttamento? In quale paranza criminale? Se non per pietà, almeno per egoismo dovremmo trovare risposte. Ma la regina delle risposte non può poggiare sempre e soltanto sulle spalle dei volontari, in mare come a terra. È necessario uno scatto. 

Un primo scatto culturale implicherebbe la fine della criminalizzazione delle Ong. A terra, organizzazioni come Save the Children sostengono strutture pubbliche allo stremo, supportano operatori esausti di fronte al nuovo impatto dei migranti. In mare, una Ong come Open Arms è rimasta sola a tentare di salvare chi, per legge e per decenza, va salvato sempre e comunque. Le Ong non meritano il trattamento cui, almeno dal 2017, sono sottoposte in Italia. Una ventina di inchieste a loro carico non ha portato a nulla di serio e, soprattutto, non ha mai dimostrato il teorema secondo cui le navi dei volontari sarebbero in combutta con le barche degli scafisti. Di più: ricercatori dell'autorevole istituto Ispi hanno illustrato dati alla mano che non esiste il fantomatico pull factor , il fattore di traino: in periodi in cui le navi Ong erano tutte ferme per effetto della stretta del governo italiano, i flussi sono persino aumentati, spinti dai veri push factor , fame, carestie, guerre. 

Appare troppo timido il ritocco alle leggi Salvini con cui l'esecutivo giallorosso ha abbassato le multe alle navi dei volontari e spostato in sede giurisdizionale (e non più prefettizia) eventuali provvedimenti. Va restaurato il principio che chi salva vite in mare non è un delinquente, anzi. E tuttavia è sbagliato caricare di pesi così gravosi le Ong che, rammentiamolo, esercitano una funzione di supplenza. Il loro ruolo si è dilatato quando le navi militari si sono ritirate dal palcoscenico dei naufragi. A fine 2013, dopo la morte di 368 migranti davanti agli scogli di Lampedusa, l'Italia aveva varato Mare Nostrum, una missione affidata alla nostra sola Marina. 

Gli obiettivi: contrastare il traffico di esseri umani, potenziare la salvaguardia della vita umana in mare, garantire un filtro sanitario avanzato. I risultati li illustrò un anno dopo al Senato l'ammiraglio De Giorgi, capo di Stato maggiore: «Dal 18 ottobre 2013 al 31 ottobre 2014: 156.362 migranti assistiti in 439 salvataggi Sars (ricerca e soccorso), 366 scafisti arrestati, 9 navi madri catturate (quelle che abbandonano in mare aperto i migranti consegnandoli a barche più piccole), il 99 per cento dei migranti intercettati prima dello sbarco e controllati dai medici di bordo». S'interruppe l'immonda consuetudine che vedeva i migranti appena sbarcati finire in mano agli spalloni come merce. 

A fine 2014 si decise però che Mare Nostrum costava troppo: nove milioni al mese. Si disse che sarebbe stata sostituita da Triton, una missione di Frontex (l'agenzia europea di controllo delle frontiere). Bugie dalle gambe corte. Triton, puramente difensiva, non era una missione di salvataggio: le navi arretrarono di oltre trenta miglia, il Canale di Sicilia tornò un cimitero, nel caos che ne seguì si mossero da un lato le Ong, dall'altro i sedicenti guardacoste libici. Se oggi le promesse della presidente von der Leyen (condividere il problema nella Ue e non lasciarci più soli) hanno qualche attinenza con la realtà, beh, lo vedremo presto. C'è un'autostrada da percorrere in mezzo al Mediterraneo. E per farlo esiste un solo veicolo: una vera Mare Nostrum europea che, senza più sovraccaricare la sola Italia, riporti in quel braccio di mare l'ordine e il senso dell'onore di cui per un anno la nostra Marina seppe dare mostra. (Corriere della Sera)

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