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Dopo la pandemia: troveremo un mondo più piccolo

Francesco Palmieri - Il foglio Pixabay
Pubblicato il 23-05-2020

Approfittiamone per per tornare a passeggiare senza marciare

La Terra non è piatta, ma i continenti almeno per quest’anno sono sei. Troppo si nascondeva il sesto per essere notato. Fra il prima e un mai più. Come l’isola Ferdinandea, che spuntò dal Canale di Sicilia nel 1831 e dopo quattro mesi s’inabissò di nuovo, anche il sesto continente sarà visibile per poco, il necessario per un’estate più piccola e imprevista secondo i ragionevoli pronostici di questa primavera. Poi, passata la buriana della pandemia da coronavirus, probabilmente torneremo ai vecchi viaggi, all’illusione momentanea di una fuga che non cambia niente, all’avventura confinata tra le date di andata e ritorno con i wifi come falò al termine della notte. Quousque tandem viaggiare così, tra romanzi accattivanti e condensati. Propizio è il momento per cambiare e forse un altro simile non si ripresenterà: già al prossimo giro l’isola Ferdinandea sarà ridiscesa sott’acqua e un sesto continente tornerà inafferrabile. Che le tratte soppresse, le frontiere socchiuse, le restrizioni sanitarie rappresentino la necessità che fa virtù. Propizio è il momento per intraprendere un’altra storia, per vivere un romanzo di tutte le pagine, per sostituire la bulimia cinetica con la capacità di movimento. Non è mai troppo tardi per nessuno. Ma per curvare il calendario bisogna prendere esempio dai maghi.

A ottantadue anni, Aldo Savoldello in arte Silvan ha trascorso la quarantena del coronavirus allenandosi tre ore al giorno nei giochi di prestigio. “Come sempre: tre ore tutti i giorni”, ha raccontato in un’intervista. “Mi chiudo nel mio studio, circondato da 4.000 libri scritti in cinque lingue, e mi estraneo nella lettura”. L’illusionista fabbrica le sue illusioni e non ne è fabbricato, sa che lo spazio e il tempo sono opzioni del labirinto di cui domina il tracciato perché l’ha disegnato lui. L’illusionista percorre vaste biblioteche come un Borges o Umberto Eco, ma in più coltiva l’uso delle mani che certi uomini pratici di mondi sottili, Giordano Bruno o un Carl Gustav Jung, sempre raccomandarono anche quando non venivano capiti. Dopo aver girato con la sua arte per il mondo, il mago Silvan lo ripercorre nel tempo, cercando adesso la pietra filosofale nella vita di Cagliostro su cui scriverà un saggio che s’aggiunge a due migliaia di volumi dedicati in oltre duecent’anni al Gran Cofto. Forse fu un iniziato o solamente l’affabulatore astuto Giuseppe Balsamo, nato a Palermo il 2 giugno 1743 e morto prigioniero nella Rocca di San Leo il 26 agosto 1795. E’ stupefacente congiungere i puntini dei suoi viaggi: da Napoli a Malta, da Lione a Barcellona, da Londra a Parigi e Strasburgo senza contare il Portogallo, l’Africa, altre destinazioni certe o millantate più quei duemila libri su cui ancora sta viaggiando dal suo tempo a qui. Seduto in biblioteca, Silvan si muove assieme a lui e noi con loro possiamo impressionarci guardando sulla mappa l’Europa di Cagliostro perché la fece a piedi, a cavallo, in carrozza e ogni metro fu rullio o sobbalzo.

Che tempra gli occorse e quanto tempo per unire distanze che noi abbiamo divorato in poche ore. E quanto furono importanti i paesaggi e i percorsi che agganciarono un capitolo all’altro e che rispetto a lui mai o poco abbiamo conosciuto, sorvolandoli tra le nuvole o nella vertiginosa carrellata di treni ad alta velocità. Come avrebbe fatto lui vivendo adesso. Perciò l’unico fascino possibile è andare noi da lui, entrare nella storia di un altro per acquisirla e dilatare la nostra biografia, ora che un virus ci ha quasi costretti in un mondo più piccolo e pertanto più vasto, dove rispetto a prima conterà sapersi muovere fra tempo e spazio senza lasciarsi portare, ma portandosi. La punta più remota della mappa di Cagliostro, e chissà cosa ci volle per raggiungerla, fu San Pietroburgo che vive sempre ancora un po’ nel Settecento.

Prima che torni facile riandarci nuovamente low cost, conviene non perdersene l’anima e inseguire noi stessi il tempo della Prospettiva Nevski, dove possiamo guardare con le facce assenti la grazia innaturale di Nijinsy o incontrare, ma per caso, Igor Stravinsky; dove possiamo studiare alla luce fioca di candele e lampade a petrolio o apprendere persino come sia difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire; dove da qui – in questo mondo fatto più piccolo per un piccolo virus – possiamo ringraziare Battiato per aver scritto una canzone: Prospettiva Nevski è il nostro treno a vapore, con le parole e la musica adatte a immaginarla come doveva essere nell’iniziale Novecento. Quousque tandem viaggiare da un aeroporto all’altro, per risvegliarsi nel giro di un pasto a bordo e di un assopimento a trenta gradi sottozero, seguendo un calendario così seriale che le uova lasciate in frigo, al nostro ritorno, non saranno ancora scadute. E’ cosa che pure abbiamo fatto, ma in questo mondo piccolo azzardiamoci ad maiora. Quanti illustri che arrivarono prima di noi a San Pietroburgo, come il tarantino Giovanni Paisiello, genio della musica napoletana ben pagato per comporre, ma vuoi mettere il vento invernale che disintegrava i cumuli di neve col tepore del Golfo di Napoli. Come si fa, che tempra ci voleva. Che tempi. A Tommaso Landolfi uscì dal cuore quest’annotazione: “Freddo. Ma quei tali che scrivevano romanzi a Pietroburgo senza riscaldamento o con una stufa che non tirava?”. Circondati da 400 o 4.000 libri, ascoltando Battiato o Paisiello, riguardando un ritratto di Cagliostro sono trascorse due ore e chi se n’era accorto. Persino un brivido di freddo, a un certo punto. Joseph de Maistre s’impellicciava bene e impiegò la luce fioca di candele e lampade a petrolio per scrivere Le serate di Pietroburgo, non immaginando che sarebbe diventato il testo di riferimento universale del pensiero reazionario e che, giusto due secoli dopo la sua uscita postuma, ancora sarebbe stato ristampato e letto.

Ma oggi per il giro intorno al mondo piccolo interessa di più suo fratello minore Xavier, che a San Pietroburgo talmente si legò da tornare a morirci. Perché fu lui a comporre – e se il discorso s’è fatto circolare è anche per lui – un libretto che divenne celeberrimo e ancora è ristampato e letto, senza che faticasse a immaginarlo poiché immediato conseguì il successo (ai fratelli minori accade così): Viaggio intorno alla mia stanza nacque proprio durante una quarantena, precisamente in 42 giorni agli arresti domiciliari per un duello a Torino, e può considerarsi l’epitome di chi si sposta senza muoversi. Un seggiolone e un letto, il servo Joannetti e la cagnetta Rosina furono i riferimenti del confortevole lockdown di De Maistre piccolo, il quale rimpianse eppure snobbò il Carnevale di cui gli giungeva l’eco dalle finestre. Era il 1794: “Tuttavia le riflessioni filosofiche che mi sono venute dal cielo m’hanno molto aiutato a sopportare la privazione dei piaceri che Torino dispensa a piene mani in questi momenti di baccano e di agitazione”. Se non ti ci costringono, quando mai ti costringi tu a un viaggio fra i cassetti dimenticati. Quando lui mette mano a quello delle lettere approda al cuore della stanza: “Proprio come fa il viaggiatore, che attraversa di corsa qualche provincia italiana, facendo in fretta delle visite superficiali, per fermarsi poi a Roma per mesi interi”.

Sfoglia ancora e rilegge mentre annotta e già una luce fioca di candela o lampada a petrolio lo guida nella ricognizione, dove s’è fatto tutto malinconico “appena gli occhi scorrono sulle righe tracciate da un essere che non esiste più! Questi sono i suoi caratteri, e il suo cuore guidava la mano; proprio a me scriveva questa lettera, e questa lettera è tutto quello che mi resta di lui”. (Domanda indiscreta: chi trova il coraggio di cancellare dallo smartphone il numero degli amici morti. O piuttosto lo lascia in rubrica, coltivando in modo inconfessabile l’ipotesi di una chiamata?). Lo stupore del mondo si nasconde dietro l’imprevisto di una strada interrotta, nel mutamento coatto dei programmi, nella riscrittura di un viaggio estivo che avevamo progettato a inizio d’anno quando il mondo era più raggiungibile. Eppure, se De Maistre si fosse divertito come sperava durante il Carnevale di Torino, se non fosse stato recluso, il Viaggio non l’avrebbe scritto, le sue ossa ignote riposerebbero da qualche parte a Pietroburgo e quel cognome per i posteri apparterrebbe interamente al fratello maggiore. Per scrivere il proprio romanzo certe volte bisogna esserci costretti, ma per chi accetta il gioco anche un 2020 legittimamente bisestile regala l’opportuni - tà perché ha rubato tutto il Carnevale. E’ la proposta delle stelle: non deve, ma può essere raccolta.

E’ immaginando un’atroce reclusione nella camicia di forza, la crudeltà di un aguzzino e l’attesa interminabile dell’impiccagione che Jack London schiuse i confini del passato a Darrell Standing nel romanzo Il vagabondo delle stelle. Più lo spazio per lui si riduce più aumenta il suo tempo, ossia la memoria, con le estreme facoltà di ricordarsi tutte le vite prima della vita, attingendo ai liquidi di quell’immenso serbatoio interiore che evaporano subito presso gli scettici nel vago termine “immaginazione”. Invece lui sostiene così: “Dentro di me tutti i miei io precedenti fanno sentire la loro voce, i loro echi, i loro suggerimenti. Ogni mia azione, ogni scoppio di passione, ogni balenio di pensiero prendono il loro tono e le loro sfumature, anche le più infinitesimali, da quella vasta schiera di sé che mi hanno preceduto, contribuendo a definirmi”. Forse ci crediamo solo in segreto, ma “tutte le esperienze fatte nel corso di queste e di infinite altre esistenze hanno per gradi dato forma a quell’insieme – possiamo chiamarlo anima o spirito – che è il mio io. Non capite? Io sono tutte queste vite”. La proposta delle stelle fu raccolta per la prima volta in un passato precedente ogni parola, quando la mobilità delle vertebre cervicali permise all’Homo habilis di scrutare l’orizzonte e la volta celeste, facendo di lui secondo Julien Ries il primo homo religiosus sulla Terra.

Anche noi che siamo gli ultimi possiamo non guardare più solo alla prossima tappa di un facile viaggio, ma alzare la testa verso il cielo perché spazio e tempo tornino a stare assieme. Si può vagabondare nelle vite precedenti o immaginarlo, seguire Cagliostro dalla stanza di Silvan, si può più facilmente riandare ai luoghi abbandonati dell’infanzia dove chissà se eravamo già noi. Perché ha ragione lo scrittore Daniele Del Giudice, che aleggia adesso nello stesso Bardo di Battiato come accade già in vita a certe anime straordinarie: “Solo l’illusione della continuità ci permette di credere che il bambino e l’adulto che ne consegue siano la stessa cosa, due stadi della medesima unità, mentre l’infanzia non si sviluppa, cade semplicemente come i denti da latte, rimpiazzata da un impasto di nuova polpa, trama d’avorio e smalto, simile ma non più la stessa; il bambino e l’adulto sono due diversi generi della natura, due differenti specie e appartenenze”.
Si può andare a cercarlo, quest’estraneo noi stessi, nei luoghi accantonati dalla smania della vita lineare, nel sesto continente molto più impalpabile ma assai più vicino dei continenti che abbiamo attraversato su aerei seriali, con la riserva che un giorno saremmo tornati a rivedere quei posti, nella superstizione del dire “intanto conosciamo cose nuove”, facendo infine del nostro animo un frenetico cane che piscia per marcare territori calpestati e mai esplorati, col nostro paradiso spostato sempre un metro più in là. Già sognava di volare quando sarebbe stato grande, Del Giudice bambino, anzi di essere proprio lui un aereo sfiorando nelle planate insetti, terriccio e radici con quella prospettiva rasente al suolo tipica dei bambini che tuttavia ogni tanto guardano verso il cielo. Per chiedere alle stelle se riusciranno un giorno a staccare l’ombra da terra.

Quest’estate di questo mondo rimpicciolito si potrà approfittare per tornare sulle spiagge e le colline antiche, sulle strade dimenticate solo in apparenza, perché appena ci arrivi cominci a riconoscere le piazze e le case, rimetti assieme gli scogli e le pinete, con le mani nel cassetto delle lettere come De Maistre vedi se era rimasta posta per te e puoi persino capire le visioni del vagabondo di London, puoi ricordare persone che non ci sono più – ma - gari sbagli i nomi, non le facce – anche se adesso i fantasmi sono più numerosi degli alberi nel viale dove camminavano una volta da vivi, dove tu stesso camminavi però rasente al suolo, tipico dei bambini, con quella confidenza poi perduta con insetti, terriccio e radici quando eri un metro più basso, un Homo habilis rispetto al sapiens di adesso che ha conosciuto la musica degli aeroporti, lo sgradevole ma pure rimpianto odore dei pasti in aereo, la musica rilassante preludio al decollo, l’emozio - ne dopo l’atterraggio col clic simultaneo di cento cinture che si slacciano, la dodecafonia dei telefonini che si riaccendono, il frettoloso recupero dei bagagli dalla cappelliera, il rumore del trolley sulla gomma felpata del finger e sulla moquette verso la sala arrivi. Forse neanche eri sbarcato e già pensavi al viaggio dopo. In questa estate piccola la geografia può finalmente ridisegnarsi nelle dimensioni che cambieranno d’ora in poi volumetria ai ricordi e geometrie dei sogni: l’adulto rivede anguste certe piazze che il bambino aveva registrato immense, il barista del lido è quasi vecchio ma non è lui, è suo figlio che cresciuto gli assomiglia ogni giorno di più, le case sono state rintonacate e sulla facciata non sono più riconoscibili fra scrostature e macchie d’umido la faccia di Dio, la barca e l’elefante che il bambino rilevava col suo sguardo svagato ma iperacuto, e inoltre da grande è diventato presbite e vede meglio da lontano. Ha visto il Sudafrica e la Thailandia ma i luoghi a un’ora di macchina, o di traghetto, non li focalizzava più.

Quest’anno si può educare nuovamente la vista da vicino, si può imparare nuovamente a camminare dopo avere troppo tempo marciato, perché in forza di un virus adesso spetta a te procedere nella tua vita con una passeggiata o una marcia, a te decidere se la biografia dev’essere una linea retta da un punto stabilito alla caduta nel nulla oppure un cerchio, dove ogni ritorno diventa un inizio e ogni inizio è il tuo ritorno. “La passeggiata è forse l’archetipo più radicale della letteratura moderna”, ha detto Raffaele La Capria. Può darsi, perché anche su una pagina si marcia o si passeggia e non è vero solo per chi scrive. Esistono i lettori marciatori, che devono voltare i fogli appena possibile per affrettarsi alla fine senza capire che talvolta l’autore vorrebbe trattenerli a un capoverso, dentro un rigo o addirittura farli tornare indietro per considerare meglio un angolo di libro. Il lettore veloce è un turista della letteratura, ma in un mondo cambiato anche dai libri bisognerebbe radere l’affanno. Se è l’anno dei ritorni, può anche essere quello delle riletture, per rincontrarsi diversi in un libro terminato e dimenticato anni fa, dove riscopri fra le pagine un biglietto ferroviario in lire con la data che non racconta più niente o forse, adesso che ricordi, un’illazione su quel viaggio puoi pure avanzarla. (Non c’è dubbio che nel treno eri tu, ma la memoria restituisce un vaso fatto a cocci e a ricomporli si capisce che sono stati rincollati). E’ che anche i libri s’associano alla geografia interiore e come quelle piazze che rammentavi grandi e adesso rimisuri piccole, le pagine all’epoca più amate spesso non sono le più belle adesso. Te ne piacciono altre o più nessuna, però hai capito finalmente come funziona la macchina del tempo: non è un bolide per due come nei film di Ritorno al futuro. In genere è una monoposto su cui devi sbrigartela da solo. “A chi passeggia si accompagna sempre alcunché di singolare, di fantastico, e sarebbe insensato ch’egli volesse ignorare questa presenza spirituale: ma non l’ignora per nulla, invece, e saluta con un cordiale benvenuto tutti gli incontri inattesi…”, eccetera. Questa è La passeggiata di Robert Walser. Qualcuno nel riaprirla risale a quando e dove lesse il libro. Ma ne ha dimenticato i contenuti.

Per questa ragione se curvi il mondo in cerchio, e il tuo tempo, e le letture, torni dove eri passato anche se non è più la stessa cosa. Non la stessa persona. Aveva ragione Del Giudice. E lo dice bene il buddhismo, che l’ha minutamente spiegato anche coi paradossi. Pure lo ribadisce, ma per cose d’amore, Pablo Neruda in un poema disperato: “Nosotros, los de entonces, ya no somos los mismos”. Ogni amnesia è dunque un atto di sincerità, o di carità verso noi stessi. Ma dove sono andati in tutto questo gli amici di una volta? Chi nei suoi viaggi, chi è restato fermo dove stava, qualcuno s’è dissolto senza impegno ma ora sareste o siete l’un per l’altro cocci neanche tutti recuperabili. Se rincollato, ne verrebbe fuori un altro vaso. Nel mondo piccolo degli anni Settanta la saga di Amici miei suggerì o notificò l’egemonia del viaggio breve – da un’ora a qualche giorno e allora diventava zingarata – tra le esigue distanze di Firenze e in una Toscana che non sembrava troppo cambiata dai tempi di Pinocchio o di Vasco Pratolini. Il viaggio di prossimità ha esercitato un fascino peculiare su parecchi toscani, sicché Carlo Collodi scrisse Un romanzo in vapore che partiva dalla Leopolda e finiva alla stazione di Livorno dopo giusto tre ore di treno e di tempo calcolato di lettura. E il fascino della vicinanza prevalse sulla sete di distanza persino per il grande sinologo Carlo Puini, il quale tradusse Confucio ma si vantava di non essere mai stato in Cina poiché per comprenderla gli bastavano le fotografie. E lui d’altronde si spingeva, al massimo, fino a Fiesole per la villeggiatura. Forse perciò la smania di girare è recintata, in Amici miei, nel territorio di un capocronista. Quando il Perozzi finisce il turno di chiusura al giornale scende al bar di Borgo Santa Croce, al termine di una notte che ancora non si può chiamare giorno e non vorrebbe andare a casa, ma è troppo presto per sapere dove andare sicché si mette in macchina e gira in tondo nella piazza proprio di quel Quartiere, Santa Croce, che diede titolo e storia al romanzo di Pratolini che esordiva così: “Noi eravamo contenti del nostro Quartiere”. (Poi, si sa, qualcuno sempre dice mi sta stretto e se ne vuole andare). Si potrebbe ripartire per una zingarata, ma con chi. Sarà ancora “consentita” in quest’Italia che si crede più evoluta di quella, più scaltra per virtù del web, più colta in forza di Wikipedia, più emancipata per grazia di Ryanair perché conosce Sharm el Sheikh meglio di Santa Croce? Soprattutto, a che punto della saga di Amici miei siamo adesso: il Perozzi è ancora vivo? Il conte Mascetti è stato già colpito dall’ictus? E l’architetto Melandri l’ha raggiunto ormai nell’elegante residenza sanitaria dove potrebbe annidarsi un cluster del contagio da coronavirus? Non ci sono risposte, anzi fino a pochi mesi fa nemmeno sarebbero state queste le domande, distratti dal conteggio compulsivo dei punti MilleMiglia per andare oltre la siepe “che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”. Si può restare invece un po’ al di qua, per ascoltare nel vento – suggeriva Leopardi – la voce con cui ti parlano le morte stagioni ma pure “la presente e viva”.

Finora abbiamo davvero sentito “il suon di lei”? Se non l’abbiamo fatto, chi e cosa aspettavamo. Un virus. Addirittura. E così è stato. Ps: C’era una volta un barbiere a Ischia Porto che aveva la bottega piena di gabbie di canarini dentro e fuori, sicché il taglio dei capelli s’accompagnava a un incessante cinguettio senza Twitter. Aveva un po’ di quotidiani, con le pagine inumidite, per chi volesse ingannare l’attesa. Entrò una volta un sapiente incognito che prese un giornale, si sedette e al figaro che lo avvertiva “è quello di ieri” rispose: “Bene, allora me lo posso leggere”. Quest’estate andrei a vedere cosa c’è al posto della bottega e qual è il suono della presente stagione se non più quello dei canarini. Leggendo, ovviamente, un giornale del giorno prima

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