Keith Lowe: Quei monumenti che ci interrogano
L'intervista allo storico e studioso inglese
Un viaggio attraverso la storia, le vestigia di ciò che è stato ma forse ancor di più tra quanto di quel passato continua a influenzare le nostre esistenze. L' itinerario compiuto da Keith Lo we in Prigionieri della storia (Utet, pp. 322, euro 24, traduzione di Chiara Baffa) si snoda attraverso le epoche e i continenti, in venticinque tappe che da Bologna a Tokio conducono il giovane studioso britannico in presenza di altrettanti memoriali, santuari e monumenti che ricordano quanto accaduto durante la Seconda guerra mondiale. Specialista del lungo dopoguerra europeo, di grande interesse il suo Il continente selvaggio (Laterza, 2013), Lowe ripropone in questo viaggio un inedito approccio che combina la ricostruzione storica con l' indagine sul campo, quasi un reportage nel tempo, tra uomini e luoghi, per riflettere su quanto quei monumenti dicano non solo della memoria e della sua funzione pubblica, ma in ultima analisi anche di noi stessi, del nostro sguardo sul passato come sul presente.
Dal suo «viaggio» tra i monumenti dedicati alla Seconda guerra mondiale sembra emergere l' idea che più che parlarci del passato e di quanto di esso vogliamo ricordare o dimenticare, statue e memoriali interroghino il presente.
Fanno entrambe le cose: commemorano momenti significativi del passato e celebrano valori che riteniamo importanti oggi. I monumenti dedicati alla bomba atomica di Hiroshima e Nagasaki, ad esempio, non riguardano solo ciò che è accaduto allora, ma rappresentano anche un impegno per la pace nel futuro. Il messaggio principale dei memoriali dell' Olocausto non è solo «quanto è stato tragico», ma anche «mai più». Non ci preoccuperemmo di erigere monumenti se non contenessero un messaggio su chi pensiamo di essere e su cosa è importante per noi attualmente. E credo che siano questi «messaggi nascosti» i più interessanti.
Se nell' Europa occidentale questi monumenti e i valori che in carnano sono di rado messi in discussione, al contrario, nell' Europa orientale sono spesso oggetto di controversie o vengono utilizzati, come nel caso del «Memoriale per le vittime dell' occupazione tedesca» di Budapest, dalle forze nazionaliste per riscrivere la memoria nazionale.
Più che di Est e Ovest penso che il problema si ponga nei termini di quanto complicata fu la guerra in ogni Paese. Per gli inglesi è facile: non sono mai stati invasi, ed erano dalla parte dei vincitori, quindi si considerano eroi. I monumenti britannici sono spudoratamente nazionalisti e si dimentica volutamente le cose terribili che ha fatto la nostra aviazione, come bombardare civili e città intere. In un certo senso, anche per i polacchi è «facile». Furono invasi sia dai tedeschi che dai sovietici e il loro Paese fu fatto a pezzi, con sei milioni di vittime, ebrei e non. Quindi la Polonia è stata, con qualche eccezione, un martire della guerra e i suoi monumenti lo riflettono. Mentre l' Ungheria ha una storia molto più difficile da raccontare. Il Memoriale di cui parlo nel libro rappresenta un tentativo del governo di Budapest di attribuire al Paese un profilo da martire. Solo che l' Ungheria fu alleata della Germania per la maggior parte della guerra e complice dei crimini dei nazisti. Per questo il monumento è stata condannato a livello internazionale e una parte dei cittadini della capitale magiara vi ha eretto di fronte un contro -memoriale che ricorda le responsabilità del Paese. E l' Italia ha lo stesso problema dell' Ungheria: ci sono molti monumenti importanti ai martiri della guerra - a Bologna, Marzabotto, le Fosse Ardeatine - ma il Paese non ha mai fatto davvero i conti con i crimini del fascismo. È più facile fingere che i soli responsabili siano stati i tedeschi e chiudere gli occhi sulle cose terribili che lo Stato italiano ha fatto al proprio popolo e agli altri.
In un altro contesto, il santuario Yasukuni di Tokio sembra essere divenuto nel corso degli anni l' epicentro del tentativo di negare i crimini commessi dai giapponesi durante la guerra, al punto che la visita a questo luogo è diventata per molti politici, premier compresi, il segnale di una svolta nazionalista o di una apertura di credito nei confronti del revisionismo storico e del negazionismo. Un monumento del genere gode quasi di una vita propria?
Lo Yasukuni è un luogo in cui la religione e una visione ultranazionalista della storia si sovrappongono. È un santuario, un centro religioso che ospita le anime di coloro che sono morti per il Giappone, compresi però anche molti criminali di guerra condannati a fine conflitto. Per coloro che credono nei suoi valori, è un luogo di devozione fanatica.
Ma ispira anche un odio assoluto tra chi li rifiuta, al punto di essere diventato uno dei simboli della rottura delle relazioni internazionali tra giapponesi, cinesi e coreani, popoli che furono invasi e vittime dell' espansione militare di Tokio. Perciò, è vero, si potrebbe dire che si tratta di un monumento che conduce per certi versi una vita propria.
Negli ultimi anni, si tratti delle statue di Cecil Rhodes, legato al colonialismo britannico, o di quelle dei generali della Confederazione del Sud, in Europa, Sud Africa e Stati Uniti è cresciuto un movimento che recla ma l' abbattimento di monumenti che celebrano un passato di violenza e sopraffazione. Lei suggerisce come si tratti però anche di simboli che mantengono viva la memoria di tali orrori, evitando che su di essi cali l' oblio. Cosa fare dunque di queste statue?
Capisco il disgusto che molte persone provano per i monumenti che celebrano la vita dei razzisti e dei proprietari di schiavi, ma penso che abbattere questi monumenti non risolva il problema. Se rimuoviamo queste figure dal paesaggio, è solo più facile dimenticare i crimini di cui erano responsabili i nostri antenati. Vorrei che alcune di queste statue restassero dov' erano, modificando però il contesto che le circonda. Perché non ridicolizzare le figure cui sono dedicate? Le loro mani potrebbero essere dipinte di rosso, per simboleggiare il sangue che hanno versato; oppure si potrebbero capovolgere o appoggiare per terra. Ci sono molti altri modi per esprimere la nostra disapprovazione per questi personaggi senza far semplicemente sparire le loro statue. Ciò che è chiaro, tuttavia, è che non possono essere semplicemente lasciate così come sono. I valori che rappresentano non sono più accettabili nelle nostre società.
Nel libro descrive il Grutas Park, dove in un contesto che suscita ironia e che proprio per questo sembra esorcizzare il terribile passato di oppressione che rappresentano, sono state riunite molte statue di Stalin. Si tratta di un esempio di come si può «cambiare di segno» il portato simbolico di questi monumenti?
Il Grutas Park è un cimitero monumentale che si trova nel sud della Lituania. Dopo la caduta del regime, molte delle statue di Stalin e dei dirigenti comunisti locali furono raccolte e portate qui per essere esposte. All' epoca l' idea non riscosse una particolare popolarità, perché il Grutas non è un museo, bensì un' attrazione turistica che comprende un grande parco giochi per bambini e uno zoo. Originariamente era stato concepito come una sorta di parco a tema gulag, completo di filo spinato, torri di guardia e altoparlanti che diffondevano la propaganda stalinista. E molti lituani che avevano sofferto terribilmente durante lo stalinismo ritenevano che tutto ciò banalizzasse il loro dolore. Eppure, credo che paradossalmente il parco funzioni. Le statue non godono più del rispetto che incutevano un tempo, quando si ergevano in piedi su un piedistallo in mezzo a una piazza: sono nascoste tra gli alberi o circondate da animali. E se Stalin è posto dentro un recinto pieno di lama, è impossibile prenderlo sul serio. E, ancora più importante, è impossibile avere paura di lui.
L' approdo del suo itinerario è un progetto la cui inaugurazione è stata rimandata a causa della pandemia. Si tratta della Liberation Route Europa, un percorso escursionistico di duemila chilometri che si apre nella Churchill War Rooms di Londra per concludersi a Berlino dopo aver fatto tappa in Normandia, nelle Ardenne, a Parigi e molti altri luoghi simbolo della liberazione dell' Europa dal nazifascismo. Un «monumento» che incarna una storia che riguarda e interroga tutti?
Il progetto della Liberation Route Europe combina le diverse memorie nazionali della guerra, la cui violenza non risparmiò alcun confine, in un sentiero escursionistico transnazionale. Consentirà ai visitatori di cogliere la prospettiva locale e quella nazionale ma sempre all' interno di uno sguardo più ampio e a vocazione internazionale. Chi dovesse seguire l' itinerario dalla Normandia a Berlino, terminerebbe il viaggio con un' idea abbastanza completa di cosa rappresentò la guerra per i Paesi dell' Europa occidentale, ma anche percorrendone solo un tratto si può essere consapevoli del fatto che si tratta di un frammento di una storia molto più grande. E non è forse di questo che abbiamo bisogno perché la memoria storica faccia fino in fondo la sua parte? Di comprendere che i nostri ricordi individuali e nazionali non sono l' intera storia, ma che c' è sempre qualcosa di molto più ampio e complesso che dobbiamo tenere a mente. (Il Manifesto)
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