religione

Sei anni di Francesco, la Chiesa sia un «ospedale da campo»

Redazione Varesenews
Pubblicato il 12-03-2019

Il 13 marzo 2013 saliva al soglio petrino un uomo proveniente dalla «fine del mondo», primo Papa sudamericano

Sono passati sei anni da quel 13 marzo del 2013, quando per la prima volta si presentò ad una Piazza San Pietro gremita il «papa venuto dalla fine del mondo», Francesco. Il suo Pontificato, più volte definito profetico, ha saputo camminare al fianco di una Chiesa che muta mantenendo fede alla propria essenza. In particolare, la proposta di papa Francesco è «profetica», cioè realizzata da chi sa conferire al movimento del tempo il suo vero rapporto con il disegno di Dio.

Francesco è un papa del Concilio Vaticano II, non perché lo affermi e lo difenda costantemente, ma perché ne coglie il valore intimo di rilettura del Vangelo alla luce dell’esperienza contemporanea. Paolo VI, nel suo discorso di chiusura della quarta sessione conciliare, aveva definito la carità come «la religione del nostro Concilio», ricordando «l’antica storia del Samaritano». E per Francesco questa deve essere la Chiesa: una «Chiesa samaritana», «ospedale da campo» – come l’ha descritta nella sua prima intervista che ha concesso a La Civiltà Cattolica nell’agosto del 2013 – una Chiesa che è «casa per tutti», come ha ribadito più volte.

A chi gli chiedeva se volesse fare la riforma della Chiesa, il Papa rispose che lui voleva semplicemente mettere Cristo sempre più al centro della Chiesa; poi sarebbe stato Lui a fare le riforme necessarie. Non è un caso che il cardinal Bergoglio, divenuto papa, abbia scelto il nome «Francesco». Non lo ha fatto soltanto per sottolineare il legame evangelico con i poveri e i piccoli, ma lo ha fatto perché sente come sua la missione di Francesco d’Assisi: «ricostruire» la Chiesa, cominciando, come il santo di Assisi, dal fare il muratore che ricostruisce una chiesetta.

La sua è e vuole essere essenzialmente una riforma spirituale. Il pontificato di Francesco è un pontificato di discernimento spirituale. La strada che Francesco intende percorrere è per lui davvero aperta e rifugge le conclusioni facili: il cammino si rivela camminando. Francesco, come tutti i papi, ha generato resistenze fuori e dentro la Chiesa. Perché? La radice profonda di questo pontificato è la fede che Dio sia attivo e all’opera nel mondo.

Per alcuni, il cattolicesimo dovrebbe essere custodito da una minoranza di puri che ne preservino la dottrina in uno scrigno e che non si contaminino nel mondo, nella storia, nella realtà. Francesco vede fluidità tra piazza e Chiesa, tra ecclesia e agorà, non ostilità. Per lui, la Chiesa deve essere sempre aperta sulla «piazza», per far entrare la gente, sì, ma soprattutto per far uscire Cristo senza chiuderlo dentro a chiave.

Pur non cambiando una virgola della dottrina, il Papa ha reinterpretato il suo ruolo all’interno del cristianesimo e delle relazioni ecumeniche. Se una volta il pontefice era percepito sensibilmente come l’ostacolo all’ecumenismo, adesso spesso ne è la motivazione: Francesco aggrega i leader religiosi cristiani. La sua visione dell’ecumenismo è quella di agire come se i cristiani fossero già uniti. Un altro ambito di rilievo è quello che vede Francesco – si potrebbe dire, «purtroppo» – come l’unico vero leader morale del mondo. La sua capacità dialettica, la sua diplomazia dell’incontro con tutti è in grado di smuovere situazioni che sembrano incancrenite. O almeno di far udire la parola del Vangelo su di esse.


Luca Taveri - Avvenire

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