Dio salvi Chiesa italiana da potere e ricchezze
«Non dobbiamo essere ossessionati dal potere, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa». Le parole di Francesco a Santa Maria del Fiore, davanti ai vescovi e ai delegati Cei di 226 diocesi italiane, suonano come l’epigrafe definitiva di una stagione - quella del cosiddetto «ruinismo» - che era andata già sfumando negli ultimi anni.
Dal Convegno nazionale del ’76 a Roma, la Chiesa italiana si riunisce alla metà di ogni decennio e ascolta dal Papa le indicazioni per il futuro. Il tema di quest’anno è «in Gesù il nuovo umanesimo». Ed è da qui che parte Francesco, invitando a guardare l’ «Ecce Homo» affrescato nella Cupola di Brunelleschi. «Guardando il suo volto che cosa vediamo? Innanzitutto il volto di un Dio “svuotato”, di un Dio che ha assunto la condizione di servo, umiliato e obbediente fino alla morte. Il volto di Gesù è simile a quello di tanti nostri fratelli umiliati, resi schiavi, svuotati. Dio ha assunto il loro volto. E quel volto ci guarda». Così Francesco spiega: «Se non ci abbassiamo non potremo vedere il suo volto. Non vedremo nulla della sua pienezza se non accettiamo che Dio si è svuotato. E quindi non capiremo nulla dell’umanesimo cristiano e le nostre parole saranno belle, colte, raffinate, ma non saranno parole di fede. Saranno parole che risuonano a vuoto».
Umiltà, disinteresse, e la beatitudine dei poveri di spirito sono i «tratti» che scandiscono il discorso del Papa. L’umiltà, anzitutto: «L’ossessione di preservare la propria gloria, la propria “dignità”, la propria influenza non deve far parte dei nostri sentimenti». Poi il disinteresse di chi sa che «l’umanità del cristiano è sempre in uscita, non è narcisistica e autoreferenziale», scandisce Francesco: «Quando il nostro cuore è ricco ed è tanto soddisfatto di sé stesso, allora non ha più posto per Dio. Evitiamo, per favore, di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli». E infine la beatitudini indicate da Gesù nel discorso della Montagna: «Gesù parla della felicità che sperimentiamo solo quando siamo poveri nello spirito. Per i grandi santi la beatitudine ha a che fare con umiliazione e povertà». Ecco perché non bisogna essere ossessionati dal potere: «Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il senso. Se li assume, invece, sa essere all’altezza della sua missione. I sentimenti di Gesù ci dicono che una Chiesa che pensa a sé stessa e ai propri interessi sarebbe triste».
Francesco cita ciò che ha scritto nella Evangelici Gaudium: «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti». Così il Papa mette in guardia la chiesa da due tentazioni fondamentali («Sono due, non vi spaventate, non come le quindici che ho detto alla Curia!»). La prima è quella «pelagiana» : «Essa spinge la Chiesa a non essere umile, disinteressata e beata. E lo fa con l’apparenza di un bene. Il pelagianesimo ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte. Spesso ci porta pure ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività. La norma dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore, di avere un orientamento preciso. In questo trova la sua forza, non nella leggerezza del soffio dello Spirito». Ma «davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative», aggiunge il Papa: «La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: si chiama Gesù Cristo».
La Chiesa «semper reformanda» è aliena dal pelagianesimo, di qui la raccomandazione di Francesco: «La Chiesa italiana si lasci portare dal suo soffio potente e per questo, a volte, inquietante. Assuma sempre lo spirito dei suoi grandi esploratori, che sulle navi sono stati appassionati della navigazione in mare aperto e non spaventati dalle frontiere e delle tempeste. Sia una Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa. E, incontrando la gente lungo le sue strade, assuma il proposito di san Paolo: ‘Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno’». La seconda tentazione «da sconfiggere» è quello dello gnosticismo: «Essa porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello». Ma “la differenza fra la trascendenza cristiana e qualunque forma di spiritualismo gnostico sta nel mistero dell’incarnazione. Non mettere in pratica, non condurre la Parola alla realtà, significa costruire sulla sabbia, rimanere nella pura idea e degenerare in intimismi che non danno frutto, che rendono sterile il suo dinamismo».
Il Papa indica l’esempio di grandi santi italiani, da Francesco a Filippo Neri, ma anche il personaggio di don Camillo: «Mi colpisce come nelle storie di Guareschi la preghiera di un buon parroco si unisca alla evidente vicinanza con la gente. Di sé don Camillo diceva: ‘Sono un povero prete di campagna che conosce i suoi parrocchiani uno per uno, li ama, che ne sa i dolori e le gioie, che soffre e sa ridere con loro’. Vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto. Se perdiamo questo contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da nessuna parte». Così Bergoglio conclude: «Ma allora che cosa dobbiamo fare? – direte voi. Che cosa ci sta chiedendo il Papa? Spetta a voi decidere: popolo e pastori insieme. Io oggi semplicemente vi invito ad alzare il capo e a contemplare ancora una volta l’Ecce Homo che abbiamo sulle nostre teste».
All’ultimo Sinodo Francesco ha parlato della «sinodalità», ovvero del «camminare insieme», come della «dimensione costitutiva della Chiesa», anche nelle conferenze episcopali. Ora dice: «Che niente e nessuno vi tolga la gioia di essere sostenuti dal vostro popolo. Come pastori siate non predicatori di complesse dottrine, ma annunciatori di Cristo, morto e risorto per noi. Puntate all’essenziale, al kerygma. Non c’è nulla di più solido, profondo e sicuro di questo annuncio. Ma sia tutto il popolo di Dio ad annunciare il Vangelo, popolo e pastori, intendo». E ancora: «Vi raccomando in maniera speciale la capacità di dialogo e di incontro. Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti». Una Chiesa aliena dal potere non è una Chiesa che sta zitta: «La Chiesa sappia anche dare una risposta chiara davanti alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico: è questa una delle forme del contributo specifico dei credenti alla costruzione della società comune. I credenti sono cittadini». L’ultima raccomandazione riassume, in forma di preghiera, l’essenziale: «Che Dio protegga la Chiesa italiana da ogni surrogato di potere, d’immagine, di denaro. La povertà evangelica è creativa, accoglie, sostiene ed è ricca di speranza». (Corriere della Sera)
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