L'intervista al Segretario di Stato Vaticano Pietro Parolin, la scommessa del cambiamento
L’avventura di Pietro Parolin alla guida della Segreteria di Stato vaticana è iniziata da pochi mesi. Ma le coordinate che guidano il suo modus procedendi già si profilano. Nel lavoro intenso e riservato, alieno da esibizionismi clericali, la scommessa in gioco è quella di riplasmare anche gli strumenti della diplomazia vaticana sulla "conversione pastorale" che Papa Bergoglio suggerisce a tutta la Chiesa. In questa intervista ad Avvenire – la prima di ampio orizzonte rilasciata dal futuro cardinale vicentino – è presente lo scenario del mondo. E ciò che anche la Santa Sede, seguendo il Vangelo, può fare al servizio di tutti.
Il suo ritorno in Vaticano per assolvere l’incarico di Segretario di Stato è stato segnato da un intervento chirurgico e una convalescenza: un inizio davvero singolare. Che pensieri le ha suscitato?
Ho pensato che non c’è stato alcun ritardo nell’assumere il compito di Segretario di Stato, sebbene sia arrivato in Vaticano un mese circa dopo la data prevista del 15 ottobre, giorno in cui, invece, sono stato ricoverato in ospedale, a Padova. La Chiesa si serve non solo con la nostra attività, pur necessaria, ma anche, e forse di più, con la nostra debolezza e la nostra fragilità, accolte nella fede e con amore e unite al sacrificio redentore di Cristo sulla croce. Vorrei che questo pensiero non mi lasciasse mai finché durerà il mio incarico.
Lei ha detto di conoscere poco Papa Bergoglio e di non sapere i motivi per i quali è stato nominato Segretario di Stato. Nel frattempo è stato nominato anche cardinale. Adesso può dire cosa significa lavorare con Francesco e con quale stile intende far procedere il suo lavoro?
Effettivamente conoscevo poco Papa Francesco. Ad alcuni mesi dall’inizio del lavoro considero la collaborazione con lui una grande, immeritata grazia e, nello stesso tempo, una seria responsabilità, in riferimento soprattutto a quel rinnovamento della Chiesa a cui egli tutti ci chiama, con insistenza. Lo stile non può essere che il suo, nel quale mi sento profondamente identificato: semplicità, apertura, vicinanza, serenità e gioia. Uno stile il più possibile simile a quello di Gesù Buon Pastore.
E per il ruolo specifico della Segreteria di Stato cosa comporta adesso la conversione pastorale suggerita da Papa Francesco a tutta la Chiesa?
La Segreteria di Stato, essendo l’organo che coadiuva da vicino il Sommo Pontefice nell’esercizio della sua suprema missione, dovrà assumere con cordiale e totale disponibilità la conversione pastorale proposta da Papa Francesco; anzi, diventarne, in un certo senso, un modello per l’intera Chiesa. E far brillare in modo particolarmente intenso, nelle persone che la compongono e nelle attività che svolge, quelle dimensioni, da sempre valide, che il Papa ha indicato il 21 dicembre scorso come indispensabili per la Curia Romana: professionalità, servizio e santità di vita.
Qualcuno contrappone diplomazia e proclamazione della fede, realismo dialogante e intransigenza nella difesa dei princìpi. Sono contrapposizioni vere?
Che senso hanno queste contrapposizioni? A me hanno insegnato fin da piccolo che il cattolico è la persona dell’"et-et" e non dell’"aut-aut", anche se tale sintesi, a livello personale, può risultare talvolta difficile, perfino lacerante. Trovo a riguardo illuminatrici le parole della prima lettera di san Pietro: siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi, ma fatelo con dolcezza, rispetto e retta coscienza. Circa la diplomazia, la Chiesa, nella sua storia, l’ha considerata uno strumento a servizio della sua missione, in relazione alla sua libertà, alla libertà religiosa e alla pace nel mondo.
La prospettiva aperta da Papa Francesco di una Chiesa "della prossimità" quale riflesso trova nel lavoro della diplomazia vaticana?
In un mondo plurale, che anzi rischia la frammentazione, la diplomazia vaticana può e deve affiancarsi agli uomini e ai popoli per aiutarli a rendersi conto che le loro differenze sono una ricchezza e una risorsa, e per contribuire a far convergere tali differenze, nella maniera più armoniosa possibile, alla costruzione di un mondo umano e fraterno, nel quale ci sia posto per tutti, soprattutto per i più deboli e i più vulnerabili. Questo appello che il Papa rivolge a coloro che hanno responsabilità politiche e agli uomini di buona volontà, deve trovare speciale eco in quanti, nella Chiesa, operiamo in tale ambito.
Dal suo osservatorio particolare, a suo giudizio, quali sono le modalità e le finalità di un’effettiva riforma della Curia?
Renderla uno strumento agile e snello, meno burocratico e più efficace, al servizio della comunione e della missione della Chiesa nel mondo di oggi, che è profondamente cambiato rispetto al passato. Uno strumento a servizio del Papa e dei Vescovi, della Chiesa universale e delle Chiese particolari. In questo senso, dovranno trovare sempre più puntuale applicazione le indicazioni ecclesiologiche del Concilio Vaticano II, continuando sulla strada delle costituzioni apostoliche Regimini Ecclesiae Universae di Paolo VI e Pastor Bonus di Giovanni Paolo II.
In sostanza cosa deve essere la Curia per la Chiesa? Una centrale di comando? Un organo di controllo?
Né l’una né l’altro. Ma una realtà di servizio, lo ripeto. C’è sempre il pericolo di abusare del potere, grande o piccolo, che abbiamo nelle nostre mani, e da questo pericolo non è sfuggita e non sfugge la Curia. Però, «tra voi non sia così», ci ammonisce il Vangelo, e su questa Parola, così esigente ma anche così liberante, cerchiamo di modellare la nostra attività nella Curia romana, nonostante limiti e difetti. Vorrei sottolineare che non basta una riforma delle strutture, che pure ci deve essere, se non è accompagnata da una permanente conversione personale.
Un ruolo rilevante sembra essere stato assunto dalle Commissioni che hanno interpellato anche società di consulenza esterne. A quali criteri risponde e a quali obiettivi mira il contributo di questi organismi?
Le Commissioni sono due: la Pontificia Commissione referente di studio e di indirizzo sull’organizzazione della struttura economico-amministrativa della Santa Sede, e la Pontificia Commissione referente sull’Istituto per le Opere di Religione. I loro ruoli e le loro funzioni sono quelli definiti a suo tempo nel documento con cui sono state istituite. Da parte mia, rilevo che tali Commissioni hanno un mandato limitato nel tempo e un carattere "referente", cioè la loro finalità consiste nel sottoporre al Papa e al Consiglio degli otto Cardinali suggerimenti e proposte nell’ambito della loro competenza.
Il Papa ha diverse volte parlato del «discreto e silenzioso lavoro dei vecchi curiali»: a chi si riferisce?
Nella Curia romana ci sono stati e ci sono santi. Varie volte, negli incontri personali, il Papa me ne ha parlato, aggiungendo anche nomi e cognomi di ecclesiastici che sono rimasti fissi nella sua memoria. Lo affermo anch’io, sulla base della mia esperienza personale. È motivo di sincero rammarico quando, con pennellate che ritengo troppo sbrigative e violente, si presenta un’immagine esclusivamente negativa della Curia, come luogo dove prevalgono cospirazioni e giochi di potere. Dobbiamo, d’altra parte, lavorare e lavorare sodo per diventare più umani, più accoglienti, più evangelici, come ci vuole Papa Francesco.
Considera chiusa la stagione Vatileaks?
Quella è stata una stagione dolorosissima, che mi auguro e spero con tutto il cuore sia definitivamente tramontata. La lezione? La vicenda ha fatto soffrire ingiustamente Papa Benedetto XVI e con lui moltissime altre persone, moltissime ne ha scandalizzate e ha danneggiato non poco la causa di Cristo. Credo che gli avvenimenti in questione non debbono cessare di interrogarci sulla nostra effettiva fedeltà al Vangelo.
Secondo lei quale profilo dovrebbe assumere lo Ior?
Non entro in merito alle soluzioni tecniche, che sono ancora allo studio, ma certamente vanno sottolineati quegli aspetti di trasparenza e di conformità alla normativa internazionale che devono guidare l’individuazione del profilo dello Ior. Sottolineo pure che molto è stato fatto in questo senso, secondo le indicazioni di Papa Francesco, e che si continuerà risolutamente nella stessa direzione, affinché la gestione del denaro e le attività di natura economica e finanziaria finalizzate alle necessità della vita e della missione della Chiesa siano permeate dai princìpi del Vangelo.
Sono molte le vicende problematiche in atto sugli scenari del mondo. La Santa Sede, ora chiamata da molti anche ad assumere un ruolo rispetto alle crisi, che interessi e finalità persegue in questi contesti?
Il Papa stesso è il primo "agente" diplomatico della Santa Sede. Siamo stati testimoni di come abbia assunto vigorosamente tale ruolo nella crisi in Siria. Per questo è diventato un interlocutore ricercato e autorevole a livello mondiale. I compiti e gli obiettivi della diplomazia pontificia sono quelli da lui stesso indicati nel primo incontro con gli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede nel marzo 2013: costruire ponti, nel senso di promuovere il dialogo e il negoziato come mezzo di soluzione dei conflitti, diffondere la fraternità, lottare contro la povertà, edificare la pace. Non esistono altri "interessi" e "strategie" del Papa e dei suoi rappresentanti quando agiscono sulla scena internazionale.
E come valuta l’esito di Ginevra 2 sulla tragedia siriana?
Il primo round della Conferenza di Ginevra 2, alla cui inaugurazione a Montreux ha partecipato anche la Santa Sede, si è conclusa, purtroppo, senza risultati concreti, come ha dichiarato il mediatore Lakhdar Brahimi. Ciò nonostante, non hanno perduto di valore le indicazioni espresse dalla stessa Santa Sede come passi di una road map realistica per la fine del conflitto e la realizzazione di una pace duratura: la cessazione immediata della violenza, l’avvio della ricostruzione, il dialogo tra le comunità, i progressi nella risoluzione dei conflitti regionali e la partecipazione di tutti gli attori locali e globali al processo di pace di Ginevra 2. Il fatto che le due parti in lotta si siano parlate per la prima volta in tre anni è certamente un segnale positivo. Ma c’è bisogno che crescano la fiducia reciproca e la volontà politica di trovare una soluzione negoziata.
Nello "statement" della Pontificia Accademia delle Scienze sulla Siria si riconosce che «il conflitto in Siria ha avuto a che fare più spesso con le rivalità dei poteri regionali e internazionali che non con i conflitti all’interno della comunità siriana stessa». Questo riconoscimento cosa suggerisce rispetto al fenomeno delle cosiddette primavere arabe?
Fenomeno complesso quello delle primavere arabe, che, purtroppo, non ha raggiunto quegli obiettivi di maggior democrazia e giustizia sociale che sembravano esserne i motivi ispiratori. È lecito, tuttavia, chiedersi quanto a questo fallimento abbia contribuito, a livello di comunità internazionale, la ricerca di interessi economici e geo-politici particolari.
Tra le popolazioni sofferenti del Medio Oriente ci sono i cristiani. La sollecitudine per i cristiani di questa regione è anche un punto di prossimità tra la Santa Sede e altri Paesi. Quali strade nuove questa comune premura può aprire anche al dialogo ecumenico?
La situazione dei cristiani in Medio Oriente è una delle grandi preoccupazioni della Santa Sede, sulla quale essa non cessa di sensibilizzare quanti hanno responsabilità politiche, perché ne va della pacifica convivenza in quella regione e nel mondo intero. Mi pare che questo è pure un ambito di particolare rilevanza a livello ecumenico, dato che i cristiani possono cercare e trovare vie comuni per aiutare i fratelli nella fede che soffrono in varie parti del mondo.
Il viaggio del Papa in Terra Santa potrà influire sulla questione dell’accordo tra la Santa Sede e lo Stato d’Israele?
Si tratta dell’Accordo economico e finanziario che si sta negoziando da parecchi anni. Certamente, il prossimo viaggio di Papa Francesco in Terra Santa costituirà una tappa di avvicinamento alla sua firma. Si tratta di risolvere alcune questioni burocratiche che ancora necessitano di tempo.
Lei come valuta le critiche su alcuni punti dell’«Evangelii gaudium» provenienti da ambienti conservatori statunitensi, che accusano addirittura il Papa di essere marxista?
Leggendo le pagine della Evangelii gaudium pensavo a molte situazioni di miseria, di disuguaglianza e di esclusione presenti in America Latina, che ho potuto osservare con i miei occhi e che hanno riempito di tristezza e, direi, di indignazione il mio cuore. Esse giustificano, a mio parere, il forte intervento di Papa Francesco in tema di economia. Ma nessuna parte del mondo ne è, purtroppo, esente. Mi domando allora: si può non essere d’accordo con l’affermazione del Papa che il denaro deve servire e non governare? E ancora: è marxismo esortare alla solidarietà disinteressata e a un ritorno dell’economia e della finanza a un’etica in favore dell’essere umano?
Negli ultimi anni del suo servizio in Segreteria di Stato come sottosegretario lei ha seguito da vicino i contatti diretti fra la Santa Sede e la Cina popolare. Quali percorsi può ora prendere il rapporto tra Santa Sede e Cina? <
La Santa Sede guarda con molta simpatia al grande Paese che è la Cina e al suo popolo. Recentemente, pure dalla Cina provengono segnali di rinnovata attenzione nei confronti della Santa Sede, legati alla elezione di Papa Francesco, un Papa che, tra l’altro, è confratello di Matteo Ricci. Speriamo vivamente che aumentino la fiducia e la comprensione tra le parti e che ciò si possa concretizzare nella ripresa di un dialogo costruttivo con le autorità politiche, del resto sempre auspicato dalla Santa Sede e ribadito da Papa Benedetto XVI nella lettera del 2007 ai cattolici cinesi.
Torniamo dalle nostre parti. Rispetto all’Italia, in ambienti ecclesiali si è discusso spesso se la gestione dei rapporti con la politica italiana sia una prerogativa della Cei o della Segreteria di Stato. Cosa pensa a riguardo?
Un’indicazione forte è venuta da Papa Francesco, il quale, ricevendo i vescovi italiani nel maggio scorso, ricordava, tra i compiti della Chiesa in Italia, il dialogo con le istituzioni culturali, sociali, politiche. Non ritengo, tuttavia, che tale indicazione significhi la negazione di un ruolo della Santa Sede e che nessuno – Segreteria di Stato o Cei – debba o possa rivendicare in esclusiva i rapporti con la politica italiana. Si deve procedere in sinergia, nel rispetto delle rispettive competenze, come avviene negli altri Paesi del mondo, attraverso le Nunziature. La formula vincente è la collaborazione, attraverso la quale si potrà contribuire efficacemente al bene comune, che è l’aspirazione sincera della Chiesa nei confronti del Paese. E non dimenticando mai che, come afferma il Concilio Vaticano II, l’animazione cristiana dell’ordine temporale è compito specifico dei laici.Avvenire
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