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Papa: Anch’io avrei potuto essere tra scartati

Redazione online Ansa - MAURIZIO BRAMBATTI
Pubblicato il 26-04-2017

«Nella notte dei conflitti ognuno di noi sia una candela accesa. Abbiamo tanto da fare, e dobbiamo farlo insieme. Sul cammino dei popoli ci sono ferite provocate dal fatto che al centro c’è il denaro, ci sono le cose, non le persone». Con il terzo videomessaggio registrato degli ultimi tre giorni - dopo quello di domenica per la presentazione dell'opera omnia di don Milani e quello di martedì 25 aprile per il viaggio in Egitto - Papa Francesco dopo le tre di notte (ora di Roma) ha preso parte al TED (Technology Entertainment Design) talk di Vancouver, in Canada. TED è un marchio di conferenze statunitensi, gestite dall'organizzazione privata no-profit The Sapling Foundation e dal 1990 è una conferenza annuale che spazia su temi scientifici, culturali e accademici.

Francesco ha detto di apprezzare il titolo, “The future you” perché, «mentre guarda al domani, invita già da oggi al dialogo: guardando al futuro, invita a rivolgersi a un “tu”. Il futuro è fatto di te, è fatto cioè di incontri». La vita, ha continuato, «non è tempo che passa, ma tempo di incontro».

Il Papa ha quindi ricordato che «incontrando o ascoltando ammalati che soffrono, migranti che affrontano tremende difficoltà in cerca di un futuro migliore, carcerati che portano l’inferno nel proprio cuore, persone, specialmente giovani, che non hanno lavoro, mi accompagna spesso una domanda: “Perché loro e non io?” Anch’io sono nato in una famiglia di migranti: mio papà, i miei nonni, come tanti altri italiani, sono partiti per l’Argentina e hanno conosciuto la sorte di chi resta senza nulla. Anch’io avrei potuto essere tra gli “scartati” di oggi. Perciò nel mio cuore rimane sempre quella domanda: “Perché loro e non io?”».

Bergoglio ha detto di sperare che il TED Talk «ci aiuti a ricordare che abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, che nessuno di noi è un’isola, un io autonomo e indipendente dagli altri, che possiamo costruire il futuro solo insieme, senza escludere nessuno. Spesso non ci pensiamo, ma in realtà tutto è collegato e abbiamo bisogno di risanare i nostri collegamenti: anche quel giudizio duro che porto nel cuore contro mio fratello o mia sorella, quella ferita non curata, quel male non perdonato, quel rancore che mi farà solo male, è un pezzetto di guerra che porto dentro, è un focolaio nel cuore, da spegnere perché non divampi in un incendio e non lasci cenere».

Il Papa ha quindi auspicato che alla crescita delle innovazioni scientifiche e tecnologiche corrisponda «anche una sempre maggiore equità e inclusione sociale. Come sarebbe bello se, mentre scopriamo nuovi pianeti lontani, riscoprissimo i bisogni del fratello e della sorella che mi orbitano attorno! Come sarebbe bello che la fraternità, questa parola così bella e a volte scomoda, non si riducesse solo a assistenza sociale, ma diventasse atteggiamento di fondo nelle scelte a livello politico, economico, scientifico, nei rapporti tra le persone, tra i popoli e i Paesi».

«Solo l’educazione alla fraternità, a una solidarietà concreta - ha aggiunto - può superare la “cultura dello scarto”, che non riguarda solo il cibo e i beni, ma prima di tutto le persone che vengono emarginate da sistemi tecno-economici dove al centro, senza accorgerci, spesso non c’è più l’uomo, ma i prodotti dell’uomo».

La solidarietà, «una parola che tanti vogliono togliere dal dizionario» non è - ha spiegato Francesco - «un meccanismo automatico, non si può programmare o comandare: è una risposta libera che nasce dal cuore di ciascuno». Non bastano i «buoni propositi e le formule di rito, che spesso servono solo a tranquillizzare le coscienze. Insieme, aiutiamoci a ricordare che gli altri non sono statistiche o numeri: l’altro ha un volto, il "tu" è sempre un volto concreto, un fratello di cui prendersi cura». Il Papa ha quindi raccontato la parabola del Buon Samaritano, definendola «la storia dell’umanità di oggi».

«Sul cammino dei popoli - ha osservato - ci sono ferite provocate dal fatto che al centro c’è il denaro, ci sono le cose, non le persone. E c’è l’abitudine spesso di chi si ritiene “per bene”, di non curarsi degli altri, lasciando tanti esseri umani, interi popoli, indietro, a terra per la strada. C’è però anche chi dà vita a un mondo nuovo, prendendosi cura degli altri, anche a proprie spese».

Il Papa ha quindi osservato: «Abbiamo tanto da fare, e dobbiamo farlo insieme. Nella notte dei conflitti che stiamo attraversando, ognuno di noi può essere una candela accesa che ricorda che la luce prevale sulle tenebre, non il contrario». Per i cristiani, ha proseguito Bergoglio, «il futuro ha un nome e questo nome è speranza. Avere speranza non significa essere ottimisti ingenui che ignorano il dramma del male dell’umanità. La speranza è la virtù di un cuore che non si chiude nel buio, non si ferma al passato, non vivacchia nel presente, ma sa vedere il domani. La speranza è un seme di vita umile e nascosto, che però si trasforma col tempo in un grande albero; è come un lievito invisibile, che fa crescere tutta la pasta, che dà sapore a tutta la vita. Basta un solo uomo perché ci sia speranza, e quell’uomo puoi essere tu. Poi c’è un altro “tu” e un altro “tu”, e allora diventiamo “noi”».

Il terzo messaggio che Francesco ha voluto lasciare riguarda la «rivoluzione della tenerezza», cioè «l’amore che si fa vicino e concreto. La tenerezza è usare gli occhi per vedere l’altro, usare le orecchie per sentire l’altro, per ascoltare il grido dei piccoli, dei poveri, di chi teme il futuro; ascoltare anche il grido silenzioso della nostra casa comune, della terra contaminata e malata. La tenerezza significa usare le mani e il cuore per accarezzare l’altro. Per prendersi cura di lui».

«La tenerezza - ha detto ancora il Pontefice - è il linguaggio dei più piccoli, di chi ha bisogno dell’altro: un bambino si affeziona e conosce il papà e la mamma per le carezze, per lo sguardo, per la voce, per la tenerezza. A me piace sentire quando il papà o la mamma parlano al loro piccolo bambino, quando anche loro si fanno bambini, parlando come parla lui, il bambino. Questa è la tenerezza: abbassarsi al livello dell’altro. Anche Dio si è abbassato in Gesù per stare al nostro livello».

La tenerezza è la strada che «hanno percorso gli uomini e le donne più coraggiosi e forti. Non è debolezza la tenerezza, è fortezza. È la strada della solidarietà, la strada dell’umiltà. Permettetemi di dirlo chiaramente: quanto più sei potente, quanto più le tue azioni hanno un impatto sulla gente, tanto più sei chiamato a essere umile. Perché altrimenti il potere ti rovina e tu rovinerai gli altri. In Argentina si diceva che il potere è come il gin preso a digiuno: ti fa girare la testa, ti fa ubriacare, ti fa perdere l’equilibrio e ti porta a fare del male a te stesso e agli altri, se non lo metti insieme all’umiltà e alla tenerezza. Con l’umiltà e l’amore concreto, invece, il potere – il più alto, il più forte – diventa servizio e diffonde il bene».

Il futuro dell’umanità, ha concluso il Papa, «non è solo nelle mani dei politici, dei grandi leader, delle grandi aziende. Sì, la loro responsabilità è enorme. Ma il futuro è soprattutto nelle mani delle persone che riconoscono l’altro come un “tu” e se stessi come parte di un “noi”. Abbiamo bisogno gli uni degli altri. E perciò, per favore, ricordatevi anche di me con tenerezza, perché svolga il compito che mi è stato affidato per il bene degli altri, di tutti, di tutti voi, di tutti noi». (Andrea Tornielli - La Stampa)

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