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Il giornalista di pace

Beppe Giulietti Pixabay
Pubblicato il 11-07-2018

Arrendersi di fronte al regime della falsificazione significa condannarsi e condannare milioni di donne e di uomini al buio della conoscenza e alla morte della coscienza

Abbiate sete di verità, ascoltate e date voci agli ultimi, non cadete nella tentazione della falsificazione, magari cedendo al “serpente” della facile popolarità, della ricerca degli ascolti e del facile successo.

Queste alcune delle parole chiave che segnano il messaggio di papa Francesco in occasione del tradizionale appuntamento dedicato alle comunicazioni sociali.

Mai come in questa occasione le sue riflessioni dovrebbero aprire la strada ad una grande alleanza tra quanti vogliono usare la parola per costruire relazioni e ponti quanti, invece, la utilizzano come un proiettile capace di colpire e di ferire diversità e differenze.

“Non scrivere degli altri quello che non vorresti fosse scritto di Te” recita al primo punto quella Carta di Assisi che rappresenta l’indispensabile punto di riferimento per chiunque voglia davvero essere “giornalista di pace” per usare le parole di Bergoglio. Essere giornalista di pace non significa edulcorare la realtà o, peggio, ricorrere alla censura o all’autocensura per nascondere tragedie e oscurità, al contrario chi ricerca la verità ha l’obbligo di scendere alla radice dei problemi, di raccontarli senza infingimenti, di dare la parola agli espropriati, a quegli “scarti umani” che, da sempre sono al centro della riflessione e dell’azione di Francesco.

Il giornalista di pace non ha bisogno di usare le parole del terrore e del terrorismo e non aderire alla industria delle fake news, vere e proprie fabbriche della falsificazione che hanno l’obiettivo di distruggere il principio di autorevolezza e di competenza ed aprire la strada alle peggiori avventure politiche ed etiche.

A guidare questo processo sono le oligarchie internazionali, antiche logge che hanno intinto i loro cappucci, assai diversi da quelli francescani, nelle vernici della modernità, insinuandosi nelle nuove piazze digitali. Questo serpente, per riprendere il messaggio papale, ha bisogno del nostro consenso per riuscire a mordere la mela, per trasformare il vero in falso, e il boia in vittima. Qui sta il suo limite, qui sta il punto debole.

Spetta a ognuno di noi esercitare il libero arbitrio o il pensiero critico, ciascuno secondo il suo gusto e le sue scelte politiche e filosofiche, e cominciare a contrastare ogni giorno gli industriali della falsificazione, della paura, del razzismo.

Per riconoscerli basta leggerli: i loro scritti scarseggiano di dati e di fatti, ma abbondano di bestemmie, di invettive, di slogan non dimostrati, di cifre senza fonti, di pregiudizi e dogmi senza fede. La radicalità, invocata anche da Francesco, necessita di studio, di rigore, di passione per i mondi oscurati, di pietà e misericordia per le vittime, di ogni fede e colore della pelle.

Il radicalismo, invece, si fonda sulla prevalenza degli aggettivi sui sostantivi, si limita a muovere le acque in modo vorticoso, ma fermandosi alla superficie, affinché i padroni dello stagno non siano disturbati. Per queste ragioni il messaggio di Francesco deve essere letto e meditato da chiunque si occupi di informazione, a prescindere dalla collocazione professionale e persino dalle scelte religiose di ciascuno di noi.

Arrendersi di fronte al regime della falsificazione significa condannarsi e condannare milioni di donne e di uomini al buio della conoscenza e alla morte della coscienza.

Il 6 e il 7 ottobre Assisi ospiterà una nuova edizione della storica marcia promossa dalla Tavola della Pace, sarà quella l’occasione per definire e rilanciare il manifesto di chi ha scelto, anche nell’uso delle parole, di costruire i ponti e di scavalcare i muri.

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