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Speciale mafia, Don Ciotti: sostituzione del Padre col 'padrino'

Milena Gentili
Pubblicato il 30-11--0001

Abbiamo raggiunto don Luigi Ciotti, da sempre impegnato per la legalità, e parlato con lui di mafia e sentimento religioso. Per capire la strada da percorrere.



Negli ultimi tempi – in alcuni centri del sud – statue di santi sono state fatte inchinare, durante le processioni, davanti a case di boss locali. Come è possibile secondo lei preservare il carattere di devozione popolare di questi cortei da fenomeni che nulla hanno a che fare con questo sentimento?

Innanzitutto bisogna mettere in evidenza che quella mafiosa è una religiosità strumentale che trova nelle processioni, ma non solo, l’occasione per manifestarsi. La sosta davanti alla casa del boss e l’inchino delle statue sono segni di sottomissione all’onnipotenza del potere criminale, una sostituzione del Padre col “padrino”. Qualcuno ha proposto di abolirle, le processioni, ma non credo sia la soluzione, anche perché, in effetti, tante persone vivono questi momenti con intensa e sincera devozione. Il punto è un altro, e riguarda il legame tra fede e etica. Non si può essere cristiani senza una presa di coscienza delle nostre responsabilità di persone e cittadini. Gesù è venuto sulla terra per annunciare il Regno di Dio, ma anche per denunciare gli abusi di potere e per difendere i poveri e gli oppressi. La fede allora – come ci ricorda ogni giorno papa Francesco – non può essere silente, indifferente o inerte di fronte al male e alle ingiustizie del mondo. Tantomeno quando il male si traveste come nel caso della religiosità dei mafiosi.



Perché continuano ad accadere certe cose? Quanto omertà e mafia sono radicate nel territorio?

Accadono, ma accadono meno di un tempo. C’è stata – frutto di una lunga semina che ha visto espressioni di Chiesa impegnate in un’opera tenace, coraggiosa, generosa – una presa di coscienza che sta cominciando a dare i suoi frutti, anche in quei territori condizionati dalle mafie e dalle forme di complicità e silenzio che le rendono forti.



Alcuni parroci hanno abbandonato le processioni appena si sono accorti dell'inchino. Sono più, secondo lei, offesi, arrabbiati o delusi?

Non saprei. Mi basta sapere che l’hanno fatto. Che hanno fatto la cosa giusta. Nella fedeltà al Vangelo e nell’ascolto della propria coscienza.




Cosa si può fare per evitare questo fenomeno?

Ci vuole un grande impegno educativo e culturale che non riguarda, beninteso, solo la Chiesa, ma la società nel suo complesso. Occorrono politiche sociali, strumenti culturali, formazione delle coscienze, un modo più concreto e radicale di vivere le nostre responsabilità di cittadini. È un impegno da cui nessuno può dirsi esente. Ma che il cristiano deve sentire in modo particolare, perché il Vangelo è incompatibile con la mafia e con ogni forma di corruzione. “La religione – ha scritto il papa nella Evangelii Gaudium – non si limita all’ambito privato e non esiste solo per preparare le anime per il cielo [...]. Una fede autentica implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo”.




Da anni svolge un lavoro importante per la legalità. Con quale spirito continua a farlo?

Non è per la legalità, ma per la dignità e la libertà delle persone. L’uguaglianza delle persone di fronte alla legge presuppone l’uguaglianza sociale, cioè la possibilità per ciascuna di loro di avere una casa, un lavoro, un’istruzione, un’assistenza sanitaria. Cioè una vita libera e dignitosa. Con quale spirito lo faccio? Nella consapevolezza di essere un piccolo strumento di una sete di giustizia che è molto più grande di me e che non può essere soddisfatta senza un grande impegno collettivo e, per quel che mi riguarda, una profonda fedeltà al Vangelo.

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