Francesco e il Sultano, i francescani in oriente. Guardare al passato per spiegare il presente
Venti di guerra, ancora, sull’Oriente e sull’Asia. C’è addirittura un nuovo califfo che dice di essere “di Baghdad”, come il grande Harun ar-Rashid (ma in realtà è di Samarra). Si combatte nel nome di Dio e si tagliano addirittura delle teste. Siamo ripiombati nel medioevo?
Manteniamo la calma. Da una parte è vero che nihil sub sole novi, ma dall’altra è non meno vero che non ci s’immerge due volte nello stesso fiume e che la storia non si ripete mai. Un tempo, c’erano le crociate e la tempestosa conquista del mondo da parte dell’Islam; ma c’erano anche i commerci e gli scambi culturali intensi. Le nostre città marinare si sono ratte ricche con le spezie venute dai paesi musulmani e le nostre università hanno studiato nel secolo XIII (il grande secolo di Tommaso d’Aquino) sui testi di Aristotele tradotti dall’arabo in latino. E allora, perché oggi sembriamo seguire gli esempi cattivi, la guerra, e non quelli buoni, la pace e il commercio? Che cosa è andato storto?
Per capirlo, rivisitiamo il messaggio di Francesco e dei frati minori che nel Duecento inaugurarono le missioni in Asia. Sul numero di ottobre di “Medioevo”, una rivista di divulgazione scritta da buoni specialisti e da cultori attenti e non incompetenti dell’età di mezzo, il bell’articolo Missione a Damietta spiega con un titolo un po’ alla James Bond che cosa ci facesse nell’autunno del 1219 nel porto egiziano di Damietta, assediato dai crociati, l’inerme frate Francesco. Ne è autrice Chiara Mercuri, una studiosa specialista soprattutto del culto dei santi e delle reliquie della quale proprio in questi giorni è in libreria un bel libro dedicato a sant’Elena e alla leggenda della Vera Croce.
I crociati non ce la facevano a battere il sultano d’Egitto, il saggio Malik al-Kamil nipote del Saladino. Lo avevano attaccato sul delta del Nilo, il cuore dei commerci dell’epoca, perché speravano che pur di farsi togliere l’embargo che impediva ai suoi mercanti di far affari egli avrebbe accettato di cedere pacificamente Gerusalemme. Anche Francesco andò a parlare col sultano, non è chiaro se autorizzato dal capo della crociata, il cardinal Pelagio, o di sua iniziativa. Che ci abbia parlato è praticamente sicuro: molte testimonianze tra loro indipendenti lo affermano. Che cosa si siano detti, e in che lingua, sarà per sempre un segreto. Le leggende sono molte, le certezze nessuna. Sembra comunque che il sovrano saraceno una mezza idea di far pace e togliersi così i crociati dai piedi l’avesse sul serio: avrà contribuito a rafforzarlo in questa intenzione quel buffo sufi orientale? Ed è giusto chiamarlo così? Senza dubbio sì: un sufi è un uomo di Dio che indossa una povera veste fornita di cappuccio (in arabo suf). Francesco era proprio questo.
Il sultano, la pace l’avrebbe forse anche fatta. Come la fece, una decina di anni dopo, con l’imperatore Federico II anche lui venuto a far la crociata ma che di combattere non aveva granché voglia. Ma al tempo della crociata di Francesco il cardinale legato non volle sentir ragioni: gli infedeli andavano piegati con la spada. E invece quella crociata fu un fallimento.
Quando Francesco tornò in Occidente, dopo la crociata, dettò nella Regula del ’21 le sue condizioni affinché i suoi frati potessero andare tra gli infedeli: non far liti né questioni ed essere sottomessi a tutti, oppure annunziare la parola di Dio se sembra loro che Egli ciò ispiri.
I minoriti, nati dall’esperienza e dalla proposta cristiana di Francesco, seguirono il suo insegnamento e al tempo stesso fecero al volontà della Chiesa. Predicarono anche con ardore la crociata (Marco d’Aviano, l’entusiasta predicatore della resistenza ai turchi che assediavano Vienna nel 1683, era cappuccino, cioè francescano riformato), ma andarono anche pacificamente tra gli infedeli, inaugurarono una forte tradizione missionaria e in Terrasanta, riuniti nella loro “Custodia”, ospitarono e assisterono i poveri e i pellegrini mentre facevano opere di bene anche dirette ai musulmani. La loro esperienza, che dette frutti anche artistici, sarà presentata tra il marzo e l’ottobre 2015 alla Galleria dell’Accademia, in Firenze, dove si terrà la mostra L’arte di Francesco. Capolavori dell’arte italiana e terre d’Asia dal XIII al XV secolo. Mostra e catalogo saranno a cura del Direttore dell’Accademia, Angelo Tartuferi, e del direttore scientifico della Commissio Sinica, Francesco D’Arelli. Chissà: se il modello e le orme di Francesco fossero sempre stati fedelmente seguiti, forse oggi la storia dell’Asia e dei rapporti fra occidentali e musulmani sarebbe diversa. Ma l’Occidente prese a patire dal Cinquecento un’altra via: la conquista, l’occupazione coloniale e lo sfruttamento. E la storia di oggi è quella che è.