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Attualità/Come battere la fame

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001



Un terzo del cibo prodotto va in discarica. Uno spreco che coinvolge anche l'Italia. Eliminarlo significherebbe dare da mangiare a tutto il pianeta

COME BATTERE LA FAME

Quasi due litri di latte spariti ogni dieci. Quaranta patate su cento svanite nel nulla. Il 30% della carne mai arrivato a destinazione. La lista dei desaparecidos della tavola mondiale è un elenco che mette i brividi: un terzo del cibo prodotto sulla crosta terrestre, calcola l'ultimo rapporto della Fao, non finisce in un piatto. Si munge, si zappa, si alleva. Ma sempre più spesso sono sudore ed energia buttati via. Metà della frutta e della verdura coltivate fa capolinea, per un motivo o per l'altro, in discarica. La stessa fine fa il 30% dei cereali. Il bilancio finale è da mal di testa: ogni anno, secondo lo Swedish institute for food and technology, il genere umano getta in pattumiera 1,3 miliardi di tonnellate di prodotti ancora perfettamente commestibili. Valore stimato, per difetto, ben oltre i 100 miliardi di euro. Quanto basta per riempire 79 milioni di Tir che messi uno dietro l'altro formerebbero una colonna lunga 959mila chilometri, quasi tre volte la distanza tra la Terra e la Luna. E soprattutto una quantità sufficiente per ridurre a zero il numero di persone (oggi un miliardo) che soffrono la fame: tra cartoni di latte scaduti, insalata marcita nel frigo e uova arrivate oltre la data di scadenza, i soli consumatori occidentali buttano nel pattume di casa 222 milioni di tonnellate di cibo ogni anno. Una cifra uguale all'intera produzione alimentare dell'Africa subsahariana. Chi spreca cosa.Il mondo, visto attraverso la lenti di questa Caporetto della tavola globale, è piatto. Differenze geografiche e gap economici contano poco: i paesi più ricchi, certificano i dati dell'istituto svedese per la Fao, perdono per strada 670 milioni di tonnellate di carne, frutta, pesce e verdura ogni anno. Quelli in via di sviluppo seguono a ruota a quota 630 milioni. Le cifre fotografano però due realtà ben differenti. In Europa e Stati Uniti ben più del 40% degli sprechi arriva tra gli scaffali dei negozi e il frigorifero di casa, due aree dove la filiera alimentare si trasforma in una specie di colabrodo. Il primo buco è al reparto acquisti dei supermercati. Dove ogni prodotto appena ammaccato o fuori dai canoni estetici imposti dalla dura legge del marketing tira dritto per la discarica. Un esempio? «Il 25-30% delle carote prodotte nello Yorkshire viene scartato perché l'Asda, la catena inglese che le acquista, non tollera esemplari che non siano perfettamente dritti o di un arancione brillante», ricorda il guru ecologista inglese Tristam Stuart nello studio della Fao. La seconda tappa nella via crucis dello spreco è nelle cucine dei consumatori europei e americani, abituati a intasare frigo e congelatori di ogni ben di Dio, in quantità superiori alle loro esigenze caloriche. Morale: a fine anno – calcola lo Swedish Institute for Foord and Technology – ognuno di loro butta via tra i 95 e i 115 chili di cibo. Una cifra che dal 1974 ad oggi, è aumentata del 50%. In Africa e nelle aree più povere del sud Est asiatico va in onda un altro film: la voragine, qui, è nella parte intermedia della filiera, dove svanisce nel nulla – deperendo – quasi la metà degli alimenti destinati a non finire in un piatto. «La colpa è di magazzini inadeguati, delle temperature estreme e di tecnologie per la conservazione anti-diluviane», dicono gli analisti dell'istituto di Goteborg. Passato questo ostacolo però la strada verso la tavola è spianata. Una volta arrivato nella dispensa di casa, il cibo in Africa è sacro, tanto che a questo punto se ne perde un massimo di 6 chili l'anno a testa, un ventesimo dei ricchi consumatori occidentali. Il costo economico. Il “buco nero” dello spreco alimentare ha un costo economico e sociale altissimo. Ogni nucleo familiare americano di quattro persone, calcola uno studio dell'Università dell'Arizona, butta via frutta, verdura, carne uova e latte per un valore totale di 1.375 dollari l'anno. Il 40% del cibo prodotto oltreoceano ballonzola tra gli scaffali degli ipermercati e gli armadietti della cucina per venir poi spedito a stretto giro di posta alle discariche dove gli scarti alimentari – secondo l'Enviromental Protection agency – rappresentano ben il 19% dei rifiuti. Stessa musica a Londra e Parigi. In Gran Bretagna ogni anno 14 miliardi di sterline di cibo (17,5 miliardi di euro) dribblano la tavola per finire in pattumiera con un costo stimato in 233 sterline a testa. Uno spreco più difficile da accettare in un paese dove 4 milioni di persone – secondo le autorità sanitarie – faticano a mettere assieme un pranzo al giorno. In Francia, secondo una recentissima indagine dell'Agenzia nazionale per l'ambiente e l'energia, il 7% dei prodotti alimentari acquistati viene gettato dopo qualche tempo senza nemmeno essere scartato dalla confezione originale. I soldi non sono però l'unica unità di misura di questo corto circuito sulle tavole mondiali. L'altra faccia della medaglia è il suo impatto ambientale. Il 2% dei consumi energetici americani è utilizzato per preparare cibo che non verrà mai mangiato. Detto così sembra poco. Ma si tratta di una quantità annua di petrolio pari a 70 volte quello riversato nel Golfo del Messico dal disastro della Deepwater Horizon. Un quarto dei consumi d'acqua globali serve per far crescere frutta, verdura e carne destinati a uscire dalla filiera senza essere consumati. «Una quantità sufficiente a garantire 200 litri a testa al giorno a 9 miliardi di persone», calcola Stuart. Ogni tonnellata di cibo perso lungo la filiera genera 4,2 tonnellate di CO2 e secondo il think tank britannico Lovefoodhatewaste ridurre a zero gli scarti della tavola in Gran Bretagna «garantirebbe lo stesso beneficio ecologico dell'eliminazione di un quarto delle macchine dalle strade del paese». Il caso Italia. Venti milioni di tonnellate di prodotti perfettamente commestibili buttati lungo il percorso tra il campo o la stalla e i supermercati tricolori, per un valore di 12 miliardi di euro circa. Un'altra quantità imprecisata (ma per almeno altri 25 miliardi, secondo Coldiretti) uscita sana e salva dagli scaffali della grande distribuzione ma solo per finire la sua carriera in pattumiera. L'Italia è riuscita per ora a difendere senza troppa difficoltà il suo ruolo di superpotenza nella non gloriosissima classifica degli sprechi alimentari. Il 3,3% della produzione agricola nazionale si è arenato nel 2009 al primo gradino della filiera industriale, calcola Last Minute Market, spin off della facoltà d'agraria di Bologna che si occupa di recupero di cibi scaduti. Quasi 18 milioni di tonnellate di frutta e verdura rimasti sull'albero o in campo, per un valore complessivo vicino ai 6,5 miliardi. L'emorragia prosegue al piano superiore, lungo le linee di produzione dell'industria. Qui si perdono per strada altri 2,3 milioni di tonnellate di prodotti lavorati bruciando altri 2 miliardi. Tra i corridoi dei supermercati scadono o vengono scartati prodotti per 1,5 miliardi. Una quantità di cibo sufficiente a garantire ogni giorno 1.590.142 pasti completi, quanto basta per garantire prima colazione, pranzo e cena a 636mila persone al dì. «In un mondo a risorse limitate e dove non si riesce ancora a sfamare tutti, il cibo smarrito è una priorità trascurata», ricorda in conclusione il rapporto della Fao. In Italia, purtroppo, è lo stesso. (La Repubblica)

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CON QUEL CHE BUTTA IL MONDO PIÙ RICCO SI NUTRE MEZZA AFRICA

C'è un'immagine che mi viene sempre in mente quando si parla di spreco alimentare. Ero al Mercato dei cereali di Addis Abeba (si chiama proprio “mercato”, credo sia un'eredità coloniale): un via vai di camion carichi di gente e tettoie stipate soprattutto di sacchi di teff, il cereale che è alla base dell'alimentazione etiope. Con il teff si fa l'injera, il pane tipico che serve anche da posata, per prendere il cibo, perché in Etiopia si mangia con le mani. Al Mercato ci sono sempre sacchi che si bucano e un po' di teff cade inevitabilmente per terra. Vidi una signora con un bambino infagottato sulla schiena che girava con una ramazza fatta di rametti secchi. Raccoglieva il cereale rimasto sull'asfalto con grande cura, poi lo metteva in un piccolo sacchetto. Non è che voglia fare il classico predicozzo da genitore che ripete ai figli «mangia, tu che sei fortunato, perché i bambini in Africa muoiono di fame», ma direi che l'immagine della donna è più che sufficiente di fronte al dato che nel mondo si spreca un terzo della produzione totale di cibo. Equivale a dire 1,3 miliardi di tonnellate annue: è una cifra che fa rabbrividire. La ricerca del SIK (istituto svedese per il cibo) per conto della FAO analizza su scala globale e con un buon grado di approfondimento il fenomeno dello spreco alimentare. Qualcosa di cui sentiamo spesso parlare — in Italia grazie al lavoro di gente come Andrea Segré e Last-minute Market o del Banco Alimentare e di Slow Food — ma a cui forse mai diamo il giusto peso. Dai dati emerge che lo spreco avviene ovunque, ma soprattutto che è clamorosamente strutturale, perché una gran parte si verifica nelle fasi precedenti il consumo, ovvero la raccolta, il trasporto, la trasformazione, la distribuzione. Almeno in questo siamo molto simili sia nel Nord sia nel Sud del mondo: perché il sistema produttivo industriale spreca per l'appunto “quantità industriali”. Lo fa per com'è congeniato, perché non dà giusto valore al cibo: è una merce e conta soltanto il suo prezzo. Nel Paesi più poveri sono ancora più svantaggiati perché i mezzi e le infrastrutture di trasporto e conservazione non sono efficienti come quelle dei Paesi ricchi, ma noi, per non farci mancare niente, vinciamo comunque a mani basse grazie anche alla capacità che abbiamo di buttare nella spazzatura di casa i nostri alimenti. I consumatori d'Europa, Nord America e Asia industrializzata sono dei veri campioni: riusciamo a sprecare direttamente nelle nostre case 222 milioni di tonnellate all'anno, che sono quasi equivalenti (230 milioni di tonnellate) alla produzione alimentare netta di tutta l'Africa Sub-sahariana. Per questo m'innervosisco quando sento dire che bisogna aumentare la produzione di cibo nel mondo. È un refrain assordante. Lo dice la FAO stessa, ma lo dicono anche quelli che vendono sementi OGM o gli Stati ricchi già ben abituati a produrre eccedenze iper-sovvenzionate. Lo pensano anche molti agricoltori occidentali, i quali credono che aumentando la produzione possano aumentare i anche miseri guadagni che stanno realizzando oggi, in tempi di crisi eccezionale per tutti i settori agricoli. Ma far crescere ulteriormente la quantità del cibo significa spingere ancora più in là le monocolture e gli allevamenti intensivi, un agro-alimentare molto industrializzato e poco sostenibile, che se ha il difetto di fare male all'ambiente non brilla nemmeno per scopi umanitari. Parliamo piuttosto di qualità, di economie locali, di metodi di produzione, di nuova agricoltura, d'infrastrutture e sostegno alle agricolture dei Paesi poveri. I dati sullo spreco e le perdite alimentari non fanno altro che confermare che gli squilibri del mondo dipendono prima di tutto dall'attuale sistema globale di produzione- distribuzione, che tratta il cibo come una merce qualsiasi e non come fonte di vita. Conosciamo bene i fenomeni del dumping sulle derrate agricole sotto forma di aiuti umanitari o le speculazioni finanziarie sul cibo. La ricerca conferma che se incrementassimo la produzione senza cambiare sistema, le perdite alimentari aumenterebbero in maniera proporzionale, e non avremmo risolto niente. Anzi crescerebbe lo sfruttamento della terra rendendola sempre più sterile cercando nella chimica un inutile rimedio perché oltre ad aggravare il problema è fonte d'inquinamento. Le perdite sono ingenti per qualsiasi tipo di cibo: i pesci che i grandi pescherecci gettano in mare prima di arrivare in porto perché avrebbero mercato solo a livello locale, i vegetali scartati perché non conformi per immagine e taglia agli standard della grande distribuzione, la roba scaduta sugli scaffali dei supermercati. Il fatto è che in filiere corte queste perdite e sprechi potrebbero essere ridotti in maniera importante: dobbiamo tornare a economie alimentari locali anche per questo motivo. Il sistema globale del cibo è come un vecchio acquedotto che perde da tutte le parti: possiamo impegnarci singolarmente a chiudere l'acqua mentre ci laviamo i denti, ma l'acquedotto continuerà a perdere finché non cambieranno i tubi. O finché non ci sarà una rete di tanti piccoli ed efficienti sistemi di produzione/distribuzione sparsi sul territorio. Ma fare tutto ciò in qualche modo significherebbe anche ridistribuire dei profitti. Lo spreco sarà sempre tollerabile per chi realizza comunque grandi guadagni, ma non è tollerabile di fronte a un miliardo di persone che muoiono di fame. (La Repubblica)

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