Attualità/Come battere la fame
Un terzo del cibo prodotto va in discarica. Uno spreco che coinvolge anche l'Italia. Eliminarlo significherebbe dare da mangiare a tutto il pianeta
COME BATTERE LA FAME
Quasi due litri di latte spariti
ogni dieci. Quaranta patate
su cento svanite nel nulla.
Il 30% della carne mai
arrivato a destinazione. La
lista dei desaparecidos della tavola
mondiale è un elenco che mette i brividi:
un terzo del cibo prodotto sulla crosta
terrestre, calcola l'ultimo rapporto
della Fao, non finisce in un piatto.
Si munge, si zappa, si alleva.
Ma sempre più spesso
sono sudore ed energia
buttati via. Metà della
frutta e della verdura
coltivate fa capolinea, per un motivo
o per l'altro, in discarica. La
stessa fine fa il 30% dei cereali. Il bilancio
finale è da mal di testa: ogni
anno, secondo lo Swedish institute
for food and technology, il genere
umano getta in pattumiera
1,3 miliardi di tonnellate di prodotti
ancora perfettamente commestibili.
Valore stimato, per difetto,
ben oltre i 100 miliardi di euro.
Quanto basta per riempire 79
milioni di Tir che messi uno dietro
l'altro formerebbero una colonna
lunga 959mila chilometri, quasi
tre volte la distanza tra la Terra e la
Luna. E soprattutto una quantità
sufficiente per ridurre a zero il numero
di persone (oggi un miliardo)
che soffrono la fame: tra cartoni
di latte scaduti, insalata marcita
nel frigo e uova arrivate oltre la data
di scadenza, i soli consumatori
occidentali buttano nel pattume
di casa 222 milioni di tonnellate di
cibo ogni anno. Una cifra uguale
all'intera produzione alimentare
dell'Africa subsahariana.
Chi spreca cosa.Il mondo, visto
attraverso la lenti di questa Caporetto
della tavola globale, è piatto.
Differenze geografiche e gap economici
contano poco: i paesi più
ricchi, certificano i dati dell'istituto
svedese per la Fao, perdono per
strada 670 milioni di tonnellate di
carne, frutta, pesce e verdura ogni
anno. Quelli in via di sviluppo seguono
a ruota a quota 630 milioni.
Le cifre fotografano però due
realtà ben differenti. In Europa e
Stati Uniti ben più del 40% degli sprechi arriva tra gli scaffali dei negozi
e il frigorifero di casa, due aree
dove la filiera alimentare si trasforma
in una specie di colabrodo.
Il primo buco è al reparto acquisti
dei supermercati. Dove ogni prodotto
appena ammaccato o fuori
dai canoni estetici imposti dalla
dura legge del marketing tira dritto
per la discarica. Un esempio? «Il
25-30% delle carote prodotte nello
Yorkshire viene scartato perché
l'Asda, la catena inglese che le acquista,
non tollera esemplari che
non siano perfettamente dritti o di
un arancione brillante», ricorda il
guru ecologista inglese Tristam
Stuart nello studio della Fao.
La seconda tappa nella via crucis
dello spreco è nelle cucine dei
consumatori europei e americani,
abituati a intasare frigo e congelatori
di ogni ben di Dio, in quantità
superiori alle loro esigenze caloriche.
Morale: a fine anno – calcola
lo Swedish Institute for Foord and
Technology – ognuno di loro butta
via tra i 95 e i 115 chili di cibo.
Una cifra che dal 1974 ad oggi, è
aumentata del 50%.
In Africa e nelle aree più povere
del sud Est asiatico va in onda un
altro film: la voragine, qui, è nella
parte intermedia della filiera, dove
svanisce nel nulla – deperendo
– quasi la metà degli alimenti destinati
a non finire in un piatto. «La
colpa è di magazzini inadeguati,
delle temperature estreme e di
tecnologie per la conservazione
anti-diluviane», dicono gli analisti
dell'istituto di Goteborg. Passato
questo ostacolo però la strada verso
la tavola è spianata. Una volta
arrivato nella dispensa di casa, il
cibo in Africa è sacro, tanto che a
questo punto se ne perde un massimo
di 6 chili l'anno a testa, un
ventesimo dei ricchi consumatori
occidentali.
Il costo economico. Il “buco
nero” dello spreco alimentare ha
un costo economico e sociale altissimo.
Ogni nucleo familiare
americano di quattro persone,
calcola uno studio dell'Università
dell'Arizona, butta via frutta, verdura,
carne uova e latte per un valore
totale di 1.375 dollari l'anno. Il
40% del cibo prodotto oltreoceano
ballonzola tra gli scaffali degli
ipermercati e gli armadietti della
cucina per venir poi spedito a
stretto giro di posta alle discariche
dove gli scarti alimentari – secondo
l'Enviromental Protection
agency – rappresentano ben il
19% dei rifiuti. Stessa musica a
Londra e Parigi. In Gran Bretagna
ogni anno 14 miliardi di sterline di
cibo (17,5 miliardi di euro) dribblano
la tavola per finire in pattumiera
con un costo stimato in 233
sterline a testa. Uno spreco più difficile
da accettare in un paese dove
4 milioni di persone – secondo
le autorità sanitarie – faticano a
mettere assieme un pranzo al
giorno. In Francia, secondo una
recentissima indagine dell'Agenzia
nazionale per l'ambiente e l'energia,
il 7% dei prodotti alimentari
acquistati viene gettato dopo
qualche tempo senza nemmeno
essere scartato dalla confezione
originale.
I soldi non sono però l'unica
unità di misura di questo corto circuito
sulle tavole mondiali. L'altra
faccia della medaglia è il suo impatto
ambientale. Il 2% dei consumi energetici americani è utilizzato
per preparare cibo che non
verrà mai mangiato. Detto così
sembra poco. Ma si tratta di una
quantità annua di petrolio pari a
70 volte quello riversato nel Golfo
del Messico dal disastro della
Deepwater Horizon. Un quarto
dei consumi d'acqua globali serve
per far crescere frutta, verdura e
carne destinati a uscire dalla filiera
senza essere consumati. «Una
quantità sufficiente a garantire
200 litri a testa al giorno a 9 miliardi
di persone», calcola Stuart. Ogni
tonnellata di cibo perso lungo la filiera
genera 4,2 tonnellate di CO2
e secondo il think tank britannico
Lovefoodhatewaste ridurre a zero
gli scarti della tavola in Gran Bretagna
«garantirebbe lo stesso beneficio
ecologico dell'eliminazione
di un quarto delle macchine
dalle strade del paese».
Il caso Italia. Venti milioni di
tonnellate di prodotti perfettamente
commestibili buttati lungo
il percorso tra il campo o la stalla e
i supermercati tricolori, per un valore
di 12 miliardi di euro circa.
Un'altra quantità imprecisata
(ma per almeno altri 25 miliardi,
secondo Coldiretti) uscita sana e
salva dagli scaffali della grande distribuzione
ma solo per finire la
sua carriera in pattumiera. L'Italia
è riuscita per ora a difendere senza
troppa difficoltà il suo ruolo di
superpotenza nella non gloriosissima
classifica degli sprechi alimentari.
Il 3,3% della produzione
agricola nazionale si è arenato nel
2009 al primo gradino della filiera
industriale, calcola Last Minute
Market, spin off della facoltà d'agraria
di Bologna che si occupa di
recupero di cibi scaduti. Quasi 18
milioni di tonnellate di frutta e
verdura rimasti sull'albero o in
campo, per un valore complessivo
vicino ai 6,5 miliardi.
L'emorragia prosegue al piano
superiore, lungo le linee di produzione
dell'industria. Qui si perdono
per strada altri 2,3 milioni di
tonnellate di prodotti lavorati
bruciando altri 2 miliardi. Tra i
corridoi dei supermercati scadono
o vengono scartati prodotti per
1,5 miliardi. Una quantità di cibo
sufficiente a garantire ogni giorno
1.590.142 pasti completi, quanto
basta per garantire prima colazione,
pranzo e cena a 636mila persone
al dì. «In un mondo a risorse limitate
e dove non si riesce ancora
a sfamare tutti, il cibo smarrito è
una priorità trascurata», ricorda in
conclusione il rapporto della Fao.
In Italia, purtroppo, è lo stesso. (La Repubblica)
***
CON QUEL CHE BUTTA IL MONDO PIÙ RICCO SI NUTRE MEZZA AFRICA
C'è un'immagine che mi
viene sempre in mente
quando si parla di
spreco alimentare. Ero
al Mercato dei cereali
di Addis Abeba (si chiama proprio
“mercato”, credo sia un'eredità coloniale):
un via vai di camion carichi di
gente e tettoie stipate soprattutto di
sacchi di teff, il cereale che è alla base
dell'alimentazione etiope.
Con il teff si fa l'injera, il pane tipico che serve anche da
posata, per prendere il cibo, perché in Etiopia si mangia
con le mani. Al Mercato ci sono sempre sacchi che
si bucano e un po' di teff cade inevitabilmente per terra.
Vidi una signora con un bambino infagottato sulla
schiena che girava con una ramazza fatta di rametti secchi. Raccoglieva
il cereale rimasto sull'asfalto con grande cura, poi lo metteva
in un piccolo sacchetto. Non è che voglia fare il classico predicozzo
da genitore che ripete ai figli «mangia, tu che sei fortunato,
perché i bambini in Africa muoiono di fame», ma direi che l'immagine
della donna è più che sufficiente di fronte al dato che nel
mondo si spreca un terzo della produzione totale di cibo.
Equivale a dire 1,3 miliardi di tonnellate annue: è una cifra che
fa rabbrividire. La ricerca del SIK (istituto svedese per il cibo) per
conto della FAO analizza su scala globale e con un buon grado di
approfondimento il fenomeno dello spreco alimentare. Qualcosa
di cui sentiamo spesso parlare — in Italia grazie al lavoro di gente
come Andrea Segré e Last-minute Market o del Banco Alimentare
e di Slow Food — ma a cui forse mai diamo il giusto peso. Dai dati
emerge che lo spreco avviene ovunque, ma soprattutto che è clamorosamente
strutturale, perché una gran parte si verifica nelle
fasi precedenti il consumo, ovvero la raccolta, il trasporto, la trasformazione,
la distribuzione. Almeno in questo siamo molto simili
sia nel Nord sia nel Sud del mondo: perché il sistema produttivo
industriale spreca per l'appunto “quantità industriali”. Lo fa
per com'è congeniato, perché non dà giusto valore al cibo: è una
merce e conta soltanto il suo prezzo. Nel Paesi più poveri sono ancora
più svantaggiati perché i mezzi e le infrastrutture di trasporto
e conservazione non sono efficienti come quelle dei Paesi ricchi,
ma noi, per non farci mancare niente, vinciamo comunque a mani
basse grazie anche alla capacità che abbiamo di buttare nella
spazzatura di casa i nostri alimenti. I consumatori d'Europa, Nord
America e Asia industrializzata sono dei veri campioni: riusciamo
a sprecare direttamente nelle nostre case 222 milioni di tonnellate
all'anno, che sono quasi equivalenti (230 milioni di tonnellate)
alla produzione alimentare netta di tutta l'Africa Sub-sahariana.
Per questo m'innervosisco quando sento dire che bisogna aumentare
la produzione di cibo nel mondo. È un refrain assordante.
Lo dice la FAO stessa, ma lo dicono anche quelli che vendono
sementi OGM o gli Stati ricchi già ben abituati a produrre eccedenze
iper-sovvenzionate. Lo pensano anche molti agricoltori occidentali,
i quali credono che aumentando la produzione possano
aumentare i anche miseri guadagni che stanno realizzando oggi,
in tempi di crisi eccezionale per tutti i settori agricoli. Ma far crescere
ulteriormente la quantità del cibo significa spingere ancora
più in là le monocolture e gli allevamenti intensivi, un agro-alimentare
molto industrializzato e poco sostenibile, che se ha il difetto
di fare male all'ambiente non brilla nemmeno per scopi umanitari.
Parliamo piuttosto di qualità, di economie locali, di metodi
di produzione, di nuova agricoltura, d'infrastrutture e sostegno alle
agricolture dei Paesi poveri. I dati sullo spreco e le perdite alimentari
non fanno altro che confermare che gli squilibri del mondo
dipendono prima di tutto dall'attuale sistema globale di produzione-
distribuzione, che tratta il cibo come una merce qualsiasi
e non come fonte di vita. Conosciamo bene i fenomeni del dumping
sulle derrate agricole sotto forma di aiuti umanitari o le speculazioni
finanziarie sul cibo. La ricerca conferma che se
incrementassimo la produzione senza cambiare sistema, le perdite
alimentari aumenterebbero in maniera proporzionale, e non
avremmo risolto niente. Anzi crescerebbe lo sfruttamento della
terra rendendola sempre più sterile cercando nella chimica un
inutile rimedio perché oltre ad aggravare il problema è fonte d'inquinamento.
Le perdite sono ingenti per qualsiasi tipo di cibo: i pesci
che i grandi pescherecci gettano in mare prima di arrivare in
porto perché avrebbero mercato solo a livello locale, i vegetali scartati
perché non conformi per immagine e taglia agli standard della
grande distribuzione, la roba scaduta sugli scaffali dei supermercati.
Il fatto è che in filiere corte queste perdite e sprechi potrebbero
essere ridotti in maniera importante: dobbiamo tornare a economie
alimentari locali anche per questo motivo. Il sistema globale
del cibo è come un vecchio acquedotto che perde da tutte le parti:
possiamo impegnarci singolarmente a chiudere l'acqua mentre ci
laviamo i denti, ma l'acquedotto continuerà a perdere finché non
cambieranno i tubi. O finché non ci sarà una rete di tanti piccoli ed
efficienti sistemi di produzione/distribuzione sparsi sul territorio.
Ma fare tutto ciò in qualche modo significherebbe anche ridistribuire
dei profitti. Lo spreco sarà sempre tollerabile per chi realizza
comunque grandi guadagni, ma non è tollerabile di fronte a un
miliardo di persone che muoiono di fame. (La Repubblica)
Cari amici la rivista San Francesco e il sito sanfrancesco.org sono da sempre il megafono dei messaggi di Francesco, la voce della grande famiglia francescana di cui fate parte.
Solo grazie al vostro sostegno e alla vostra vicinanza riusciremo ad essere il vostro punto di riferimento. Un piccolo gesto che per noi vale tanto, basta anche 1 solo euro. DONA